domenica 30 dicembre 2012

James Hillman - Gli stili di potere (Rizzoli, 1995)




Erano anni che mi ripromettevo di leggere un libro di Hillman, ma ogni volta che me ne trovavo uno nelle mani in qualche libreria, dopo alcuni minuti di lettura venivo regolarmente investito dai sintomi dell’orchite e non sono mai riuscito a portarne uno alla casa. O, almeno, così è stato fino a quando non ho deciso di partire da questo libello di poco più di 100 pagine, confidando che stavolta avrei superato l’impresa. Scommessa persa almeno in parte, perché avrei impiegato meno a leggere l’intera Recherce di quanto non ci ho messo a finire queste poche pagine che sembrano scritte da un aspirante filosofo in pieno stream of consciousness, capace di scantonate clamorose, come nel caso dell’antropomorfismo animale (pagina 62) o della dissertazione sul carisma che perde totalmente di vista la lezione weberiana. Un’uggia carica di bizantinismi, dalla quale emergono le facce più diverse del potere. E se alcune di queste sono scontate (controllo, prestigio, leadership, autorità e tirannia), altre lo sono decisamente meno (concentrazione, entusiasmo, decisione), senza per questo riuscire a rendere il testo più accattivante. I contenuti più interessanti, l’unica cosa che salverei in questo volumetto, stanno nella ricostruzione dell’etimologia di molti dei concetti chiave usati nel testo: da quello, centralissimo, di potere (da potis esse, cioè “essere capace”), a quello di prestigio come inganno (si pensi al prestigiatore), fino alle sfumature della parole fama, che quando sono buone producono vocaboli come famoso e se invece sono cattive fanno trasformare la parola in infame e malfamato. Imperdibile la prefazione di Silvia Ronchey, se si vuole toccare con mano il prototipo di una scrittura arcana, involuta, scritto sfacciatamente per ambagi (non sapete cosa vuole dire ambagio?), tipica di una certa intellighenzia salottiera che ha mandato a memoria il catechismo di Adorno sul gusto di spararle così grosse per dare al lettore la sensazione di avere scritto, e detto, a ogni frase una cosa ancora più intelligente della frase precedente. A condizione che nessuno capisca.

martedì 25 dicembre 2012

Paolo Branca - I musulmani (Il Mulino, 2000)




La questione sollevata da quello che, con una certa enfasi lessicale, si è arrivato a chiamare “scontro di civiltà” ha la sua radice nel contatto sempre più diffuso tra mondo islamico e mondo occidentale. Questo saggio di Paolo Branca, islamista alla Cattolica di Milano, cerca di sfrondare alcuni dei potenziali pregiudizi che investono gli esponenti della seconda religione più diffusa al mondo con una programmaticità evidente fin dal sottotitolo: “per secoli li abbiamo temuti, ora dobbiamo conoscerli”. Lo scopo, per quanto perseguito con obiettività scientifica, evitamento di aggettivazioni infelici e rigore argomentativo, viene però raggiunto solo a metà. Non per demerito dell’autore, ma perché, per quanto l’islam abbia cercato in alcuni casi la via del riformismo e del rinnovamento, in esso si depositano certi caratteri tipici della precettistica religiosa, più o meno inaccettabili a seconda delle versioni. Già, perché certi passi del Corano – il testo sacro dell’islam – non sono granché rasserenanti, a cominciare dalla legge del taglione, a proseguire con la disapprovazione del celibato e a finire con la discriminazione di genere. Tutte cose note e tutt’altro che prive di fondamento. Ma nel testo si fa menzione anche di elementi meno noti, a cominciare dalla pronuncia corretta del nome (islàm) e a proseguire con le tante derivazioni del canone originario, tra le qualiil sufismo è tra le più interessanti e innovative.
Il volume fa piazza pulita anche di alcuni equivoci che si sono creati intorno all’islam. Tra questi, quello che vorrebbe una sorta di equivalenza tra islam e mondo arabo, dimenticando che la lega degli stati arabi (Algeria, Arabia Saudita, Bahrein, Comore, Egitto, Emirati Arabi, Gibuti, Giordania, Iraq, Kuwait, Libia, Libano, Marocco, Mauritania, Oman, Palestina, Qatar, Siria, Somalia, Sudan, Tunisia e Yemen) è solo una parte del complesso arcipelago islamico, del quale non va trascurata la rilevanza dell’islam nero (diffuso soprattutto in Senegal, Mali e Sudan), o quella dell’Indonesia, che è il paese islamico più popoloso al mondo. Attraverso il sistema dei media, nel mondo occidentale arrivano con più facilità le notizie relative alle frange estreme dell’islam, quelle che hanno attecchito in Iran, Afghanistan e Pakistan, se non addirittura nella ex-Jugolavia, dove per tutti gli anni novanta si sono svolte sanguinarie guerre secessioniste in nome della religione. Alla stessa stregua, suonerà insolita la mancata coincidenza, almeno nelle intenzioni, tra islam e nazionalismo, giacché alcuni stati islamici nei quali la versione integralista è più diffusa hanno finito proprio per far coincidere le due cose.
Nonostante dunque le tante prescrizioni e proscrizioni che ammantano la dottrina islamica – dal digiuno durante il Ramadan alle pratiche alimentari fino alle cinque preghiere quotidiane – l’islam mostra anche alcuni elementi di forte coesione sociale, quanto meno a livello fondativo: tra questi, il collettivismo (che porta i suoi adepti a disprezzare l’individualismo diffuso in occidente) e lo sguardo rivolto al passato.
Coerente con il titolo della collana (Farsi un’idea), il volume rimane entro il solco di una scrittura di forte impronta accademica e lo stile, con un periodare spesso lungo, non rende granché accattivante la lettura.

venerdì 14 dicembre 2012

Alessandro Baricco - Una certa idea di mondo (La Biblioteca di Repubblica, 2012)




Si apre e si chiude con un’autobiografia (la prima è quella del tennista Agassi, la seconda quella di Darwin) questa carrellata durata 50 settimane sulle pagine culturali de La Repubblica e confluita poi in questo volumetto godibilissimo, uno di quei libri che – direbbe lo stesso autore – anche in bagno vanno piuttosto bene. L’ha scritto Alessandro Baricco, che non ha bisogno di presentazioni, e che col suo stile carico di inventiva, accostamenti spiazzanti (“scrittura celibe”) e ironia mette in fila scrittori e scrittrici, autori italiani e stranieri, romanzi, saggi e racconti. Lo scrittore piemontese smonta, analizza, esamina, confronta, adottando  narcisisticamente spesso sé stesso come parametro (“leggere i libri dei contemporanei ti procura una certa autostima”). Dalle sue pagine viene così fuori che Dickens, almeno stando alle osservazioni che ne fa Orwell e che vengono riprese dallo stesso Baricco, era “un autore piuttosto ignorante, un caricaturista, uno scrittore incapace di sviluppare i personaggi”. Colazione da Tiffany di Capote è “il massimo” che uno scrittore possa scrivere; Il Discorso sul metodo di Cartesio è “un libro di avventure”. E sapete di cosa parla Fantozzi totale, di Paolo Villaggio? Della tristezza, ci suggerisce il nostro. E così via sciorinando giudizi perentori e considerazioni lapidarie: la santissima trinità americana di grandi scrittori dall’inflessione biblica sarebbe composta da Melville, Faulkner e McCarthy; Christa Wolf sa raccontare il male come nessun altro; Trilogia della città di K. è “il libro più triste” che Baricco abbia mai letto; la guerra del Peloponneso è la madre di tutte le guerre. Scorrendo le pagine apprendiamo che Vittorini, che lavorava presso Einaudi, ha stroncato gente come Tomasi di Lampedusa e Fenoglio (ma questo si sapeva già…), e possiamo spiluccare tra aneddoti meravigliosi ed esilaranti (da Glenn Gould che si fa portare ovunque il suo Steinway CD 318 per suonare sempre con lo stesso piano alle aste per i matrimoni degli Illiri o alla tragica campagna di Russia di Napoleone). Dal libro trapelano alcune delle passioni del suo autore (nella top fifthy trovi anche Storia delle idee del calcio di Mario Sconcerti), ma la sua bellezza contagiosa sta nella sua assoluta godibilità, nelle invenzioni costanti della prosa e nella capacità di farti entrare nei segreti della scrittura da addetto ai lavori che azzecca sempre i vocaboli giusti, precisi, per fari capire le cose. E quando c’è da mazzolare sullo stile di questo e di quello, Baricco non è certo uno che si tira indietro. Come quando, parlando della difficoltà di cimentarsi con il romanzo storico (siamo nella scheda di Wolf Hall, scritto da Hilary Mantel), ironizza alla sua maniera: “io trovo incredibile come tanti narratori si infilino in simili scalate da sesto grado superiore con un equipaggiamento stilistico che supera di rado l’infradito”. Chiaro, no?

lunedì 3 dicembre 2012

Giovanna Axia - Elogio della cortesia (Il Mulino, 1996; ed. 2012)





Era da qualche tempo che mi interrogavo sul ruolo della cortesia nelle relazioni sociali, che rimanevo senza risposta alla disattenzione civile che sconfina quasi sempre nella maleducazione di chi non risponde nemmeno a un saluto (a cominciare dai miei amabili condòmini). E d’altronde non è un caso che in epigrafe su questo blog campeggi una frase di Cormac McCarthy: “Quando non si dice più ‘grazie’ e ‘per favore’ la fine è vicina”. Poi finalmente ho trovato questo volumetto di Giovanna Alexia (1950-2007), originariamente pubblicato nel 1996 e rimesso in circolazione nel 2012 da Il Mulino. Non si tratta di una versione aggiornata dei precetti di Giovanni Della Casa né di un abbecedario da galateo linguistico. Piuttosto, Elogio della cortesia parte da una prospettiva psicologica con incursioni nella sociolinguistica e nella sociologia per proporre una lettura della cortesia come lubrificante sociale. Pur richiamandosi nella sua accezione etimologica alle regole della vita di corte, la cortesia viene qui definita dall’autrice senza essere confinata a una mera dimensione formale, bensì come la capacità di usare il linguaggio avendo cura di non offendere i sentimenti altrui, di non limitare lo spazio di libertà degli altri. Da questo punto di vista, la cortesia si articola su tre fattori: il potere, che lega i due attori della comunicazione; la distanza sociale (che però, diversamente dal potere, è una relazione di tipo orizzontale, laddove il potere è verticale) e il costo dell’atto linguistico. Già perché la cortesia ha “la capacità di ottenere azioni con le parole” e di conseguenza “ogni atto linguistico che in qualche modo minaccia i sentimenti degli altri ha un costo, più o meno alto, a seconda delle circostanze”. In più, come ha suggerito Goffman, la cortesia ha una faccia positiva e una negativa. Non nel senso che esista anche una cortesia negativa – per quanto esistano invece dei paradossi della cortesia, quando questa sconfina in un eccesso di formalità che sancisce freddezza e distacco (la gelida cortesia) – ma nel senso che si possono compiere atti linguistici che coincidono con l’universale “desiderio di essere liberi da imposizioni altrui e di vedere rispettato il proprio territorio”. La faccia positiva della cortesia si estrinseca invece nel “desiderio che la persona con cui sto parlando desideri per me tutte le cose che desidero io”. Ancora più interessante è vedere come la Axia, che ha esplorato a lungo le relazioni tra infanzia e cortesia per individuare il momento in cui i bambini cominciano ad apprendere le regole della cortesia, sia andata a operativizzare il concetto stesso in sede di osservazione empirica. In questo caso gli indicatori sono quattro: la forma interrogativa (per esempio: “mi dai la matita” contro “dammi la matita”); la presenza di “per piacere” (o sue varianti); l’uso dell’ausiliare (“mi puoi dare la matita?” contro “mi dai la matita?”) e la presenza di una giustificazione per la richiesta (“…ho dimenticato la mia a casa”).
Si scopre allora che intorno agli 8-9 anni i bambini sono già pienamente consapevoli di queste regole, sanno addirittura verbalizzarle, ma già a cinque sono in grado di distinguerle. Con una fitta rete argomentativa e di riscontri empirici, l’autrice mostra come l’uso della cortesia sia in stretta correlazione con l’intelligenza (sebbene la Axia trascuri di prendere in considerazione l’ipotesi di una relazione spuria condizionata dal livello culturale della famiglia di appartenenza) e come via sia anche una base morale della cortesia.
Un libro che affonda dunque la sua forza argomentativa nella psicologia e nella filosofia del linguaggio (Austin su tutti), che traccia una precisa linea di demarcazione tra cortesia e concetti affini (dalla deferenza fino alla piaggeria come uso machiavellico della cortesia stessa), anche se non di rado inciampa su osservazioni scontate.
A lettura finita ho trovato la risposta che cercavo. Sta in queste parole: “le persone sono scortesi non tanto perché non sanno parlare bene, quanto piuttosto perché non si interessano dei sentimenti altrui o non si sforzano di capirli”. Amen.