domenica 28 luglio 2013

Antonio Polito - Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2012)





“Con l’eccezione dei rampolli della dinastia Ming e di quelli dell’aristocrazia nella Francia prerivoluzionaria, i nostri figli sono i più viziati della storia dell’umanità”. Si apre con questa lapidaria affermazione della giornalista Elizabeth Kolbert il volume, parzialmente autoaccusatorio, di un altro giornalista, Antonio Polito, classe 1956, che alla sua generazione di padri (ma anche di madri) attribuisce la colpa di essere stata del tutto incapace di crescere adeguatamente i propri figli. Le ragioni storiche e culturali che hanno permesso questo primato in negativo vanno cercate lungo quattro direzioni di analisi: 1) il diritto al benessere, secondo cui la sua (la nostra) generazione ha trasmesso ai figli l’idea che ogni generazione avrebbe potuto godere di una prosperità maggiore di quella successiva; 2) il ruolo della contraccezione, che ha permesso di mettere al mondo soltanto figli desiderati (in concomitanza, aggiungo io, alla flessione della natalità, per cui si è trattato spesso anche di figli unici); 3) il ruolo giocato dalle filosofie consolatorie, tale per cui, a cominciare da Freud, sono state gettate le basi per una riduzione dell’etica alla psicologia (tradotto: aggredisce, ruba, stupra, va male a scuola, si droga perché papà lo trascurato); 4) il ruolo del darwinismo (a mio avviso l’argomento più debole), il quale spiegherebbe “tutti i comportamenti umani come conseguenze inevitabili della storia evolutiva della specie, e non come scelte più o meno consapevoli degli individui” (p. 27).
Questi quattro elementi hanno fatto da innesco a una considerazione della genitorialità sempre più lasca, con padri sempre più “mammi” e sempre meno capaci di giocare il ruolo parsonsiano di diaframma tra bambini e mondo. Padri che coccolano, vezzeggiano, sono perennemente schierati dalla parte dei figli, osteggiano i docenti che criticano i loro cocchini, li spronano alla competizione e alla dimensione performativa, li crescono nel consumismo più sfrenato e, peculiarità dei padri italiani (è di loro che si parla nel libro), optano per la scelta ultraconservatrice di destinarli a diventare proprietari di un appartamento. E, si sa, “una nazione di proprietari è più conservatrice e meno disposta a fare rivoluzioni” (p. 74). È anche per questo che deteniamo il record europeo di Neet (Not in education, employment or training): “più un giovane può contare su quello che gli lascerà il padre, meno si darà da fare per lavorare” (p. 95).
Molte argomentazioni presentate da Polito sono condivisibili e fanno riferimento a dati e fatti. Va però detto che sul testo aleggia un’aria fortemente conservatrice, tipica di quella sinistra arancione di cui Polito è uno dei massimi esponenti e che di sinistra non ha praticamente nulla. Basta guardare le fonti che cita: Ichino, Fornero, Treu.

mercoledì 24 luglio 2013

Giovanni Rezza - Epidemie. Origini ed evoluzione (Carocci, 2010)





Com’è possibile che organismi tanto piccoli come virus e batteri riescano imperterriti a creare flagelli così grandi e che la scienza non sia ancora riuscita a imporre barriere perentorie a quelli che rappresentano una delle maggiori minacce dell’umanità? La risposta prova a darcela, saltando dalla biologia all’epidemiologia e passando per i molti casi di rilevanza storica, Giovanni Rezza, specialista di malattie infettive che fa luce sulla determinazione evolutiva di questi microorganismi capaci di mettere ko milioni di persone.
Il loro vantaggio evolutivo – ci spiega l’autore – può apparire paradossale alla luce del fatto che l’organismo ospite nel quale si insedia può anche morire. Ecco allora che “l’evoluzione seleziona i più bravi ad assicurarsi una progenie e a farla sopravvivere; questo successo può essere misurato, per un germe, calcolando il numero di vittime infettate da ogni singolo malato” (p. 34). L’uomo poi ci ha messo del suo: lo spostamento delle popolazioni ha messo a contatto quelle che non erano mai entrate nell’orbita di determinati microbi ai quali altre sono resistenti e la globalizzazione non ha fatto che accelerare questo processo. Nei casi più gravi (dalla peste nera e la spagnola fino ai casi recentissimi di HIV, Sars, aviaria e mucca pazza), si è sempre trattato di un “salto di specie”: dai topi, i suini, le vacche e i pipistrelli all’uomo. Ma attenzione, perché, ci informa Rezza, anche le zanzare possono essere molto pericolose. Così come, a livello eziologico, molta rilevanza ha avuto anche la crescita degli agglomerati umani: prima della diffusione di grandi società stanziali, infatti “gli agenti di malattie acute […] non erano in grado di sopravvivere in piccoli gruppi di nomadi” (p. 41), i quali peraltro abbandonavano i loro escrementi da una parte all’altra e quindi non entravano ripetutamente in contatto con gli agenti batteriologici e infettivi.
Naturalmente non sono mancate le risposte da parte della scienza e non a caso vengono fatti i nomi di Pasteur, Jenner e Gallo, nonostante parrebbe che l’uomo, per via dell’impatto sull’ambiente, voglia remare contro se stesso.
L’agile saggio di Rezza cerca di condensare in un numero ridotto di pagine i tanti aspetti della questione, ma nel farlo non riesce a tenersi alla larga da una certa ridondanza e da uno stile di scrittura talvolta pedante.