Che il rosso, in Italia, si sia stinto e sia diventato rosa, annacquato com’è di elementi ex democristiani (Prodi, Bindi, Binetti, Renzi, solo per fermarci ai più clamorosi), se n’erano accorti in tanti. Ma che potesse virare sul nero speravamo proprio che non accadesse mai, anche se le avvisaglie c’erano da tempo. A voler spremere il succo dell’avvincente libro di Piero Sansonetti, per anni tra le firme di maggior prestigio de L’Unità, direi che la svolta a destra della sinistra si dipana su quattro assi: le politiche sul lavoro, l’infrazione del tabù della guerra, il giustizialismo e il neoliberismo. Tutti elementi che, così come vengono declinati da una ventina d’anni a questa parte, sono storicamente appartenuti alla destra più tradizionalista.
Se il PCI è stato per decenni il partito dei lavoratori, quello che ne difendeva lo statuto e che si opponeva all’abolizione della scala mobile, dopo la mutazione cromosomica avvenuta all’indomani della caduta del muro di Berlino, la sinistra che ne ha ereditato il testimone ha aperto la strada al precariato, con l’ignobile legge Treu e poi con l’appoggio a una serie di riforme (o di proposte di riforma) che portavano le firme di gente come Marco Biagi e Piero Ichino.
Quanto alla guerra, gli stessi ragazzotti che alla fine degli anni ’60 andavano a manifestare in piazza per il Vietnam, dopo quasi una trentina d’anni avrebbero contribuito a contrabbandare per “missione di pace” la guerra in Kosovo, alla faccia dell’articolo 11 della Costituzione. Era il 1999 e al governo c’era Massimo D’Alema.
Ma gli elementi più rilevanti sui quali si sofferma Sansonetti sono i rimanenti due: il neoliberismo e il giustizialismo. Il primo si è sostanzialmente estrinsecato in una metamorfosi del riformismo da “tendenza economica che punta a ottenere delle leggi che cambino i rapporti economici e di potere a favore dei ceti meno abbienti” a una concezione “che pone al vertice dell’interesse generale l’interesse della produzione, dell’impresa e della competitività”. E qui la sinistra, tra lacerazioni interne e perdita d’identità, ha finito col sovrapporsi al modello berlusconiano, pur continuando a nutrirsi di antiberlusconismo per quasi vent’anni. C’è un passaggio illuminante, nel libro di Sansonetti, che spiega questo aspetto. Lo riporto per intero: “il berlusconismo distrugge l’egualitarismo, distrugge la certezza dei diritti collettivi, attacca i diritti dei lavoratori, mette in discussione la necessità di un equilibrio tra ricchi e poveri e poi esalta la ricchezza, esalta la concorrenza, esalta il guadagno, il successo, il profitto e impone a tutti – anche a sinistra – due valori assoluti, che non esistevano nella prima Repubblica: la competitiva e la meritocrazia”. Ecco allora che è proprio quella sinistra annacquata di cui parlavo all’inizio che si prende l’incarico di sdoganare la precarizzazione, le liberalizzazioni a gogo, la riduzione delle pensioni, le oscene norme sull’immigrazione (il reato di clandestinità fu introdotto da due anime belle della “sinistra”: Livia Turco e Giorgio Napolitano).
L’ultimo elemento che ha segnato la svolta a destra di una sinistra che rischia ormai di estinguersi dal panorama parlamentare non solo italiano, ma forse addirittura mondiale (se consideriamo che uno come Blair, che per anni non ha fatto che portare avanti una versione edulcorata del tatcherismo, è stato l’alfiere della sinistra europea, c’è poco da stare allegri) è il giustizialismo, il connubio sempre più stretto con la magistratura, la propensione forcaiola e legalitaria. “La legge e il legalitarismo – che sono sempre stati concetti e bandiere della destra – diventano la bussola del nuovo riformino morale”. L’ispiratore di questo giustizialismo di sinistra è stato in gran parte, a sentire Sansonetti, Eugenio Scalfari, al quale l’ex condirettore de L’Unità dedica pagine e pagine, aprendo uno squarcio dal di dentro per mostrarci l’infittirsi dei rapporti tra politica e stampa e sul tentativo di quest’ultima di stabilire progressivamente un vero e proprio contropotere, o di proporsi comunque come elemento capace di dinamizzare ulteriormente l’agone democratico. Scalfari non è l’unico nome che esce, almeno nella percezione che ne avevo precedentemente, fortemente ridimensionato, malato com’è di protagonismo e di quella boria da intellettuale ultraborghese e liberale che la sa sempre più lunga degli altri. Anche Veltroni viene ripetutamente criticato (e non solo per la gestione culturale de L’Unità, passata dall’allegare i libri sulla storia dell’Unione Sovietica agli album delle figurine Panini…), così come Prodi, per non parlare di gente come Napolitano o Renzi, che con la sinistra c’entrano praticamente nulla, esponenti di uno stalinismo d’antan per il quale conta soltanto il raggiungimento del potere, non le idee o l’egalitarismo. Al contrario, la figura di Craxi sembra avere anche qualche luce nella prospettiva che ne offre Sansonetti, e non soltanto le ombre dei tempi di Tangentopoli, e Bertinotti non è stato quell’assassino di governi rossi che buona parte della stampa ha voluto farci credere.
La sinistra è di destra è dunque un libro che merita senza alcun dubbio la lettura, nonostante qualche vezzo di troppo dell’autore (peraltro tipico della collana della BUR che lascia ampio spazio ai personalismi), soprattutto per la lucidità e chiarezza d’analisi, la capacità di interpretazione storica, la scorrevolezza della prosa.
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