Quale altro buon motivo per leggere Tre piani, dello scrittore israeliano Eshkol Nevo (nella traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi), se non quello di portarsi avanti con il lavoro in vista dell’uscita del film omonimo di Nanni Moretti, il primo il cui soggetto non sia uscito dal suo pugno? I tre piani del titolo sono quelli di un condominio di Tel Aviv, dove vivono persone con problemi di diversa natura, tutti in qualche modo borderline. Al di là della trama, ciò che colpisce del libro è l’assoluta insipienza letteraria, la totale mancanza di inventiva non tanto e non solo sul piano lessicale (sarebbe un torto alle due traduttrici), quanto su quello dell’immaginazione, delle figure retoriche, della capacità di racconto, intarsiata – come ormai è di moda – da riferimenti alti e bassi. Tutto si avvita sui tormenti solipsistici dei tre protagonisti, angustiati da situazioni indubbiamente pesanti e dall’enorme carico emotivo. Ma nel romanzo non c’è finezza psicologica, così come latita la capacità di dissezionare il malessere dei protagonisti e tutto sembra ruotare sulla definizione a grana grossa del mood malmostoso che inonda l’intero libro. Vedremo se Moretti, con la sua formidabile sensibilità, saprà dare spessore a questi personaggi monodimensionali.
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