Quale altro buon motivo per leggere Tre piani, dello scrittore israeliano Eshkol Nevo (nella traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi), se non quello di portarsi avanti con il lavoro in vista dell’uscita del film omonimo di Nanni Moretti, il primo il cui soggetto non sia uscito dal suo pugno? I tre piani del titolo sono quelli di un condominio di Tel Aviv, dove vivono persone con problemi di diversa natura, tutti in qualche modo borderline. Al di là della trama, ciò che colpisce del libro è l’assoluta insipienza letteraria, la totale mancanza di inventiva non tanto e non solo sul piano lessicale (sarebbe un torto alle due traduttrici), quanto su quello dell’immaginazione, delle figure retoriche, della capacità di racconto, intarsiata – come ormai è di moda – da riferimenti alti e bassi. Tutto si avvita sui tormenti solipsistici dei tre protagonisti, angustiati da situazioni indubbiamente pesanti e dall’enorme carico emotivo. Ma nel romanzo non c’è finezza psicologica, così come latita la capacità di dissezionare il malessere dei protagonisti e tutto sembra ruotare sulla definizione a grana grossa del mood malmostoso che inonda l’intero libro. Vedremo se Moretti, con la sua formidabile sensibilità, saprà dare spessore a questi personaggi monodimensionali.
Dice il saggio...
Recensioni di saggistica
domenica 18 luglio 2021
lunedì 3 aprile 2017
Bob Dylan: Chronicles. Volume 1 (2004, Feltrinelli)
Cafè Wha, Bleecker Street, MacDougall street, Gaslight: sono questi alcuni dei luoghi presso i quali si sviluppa il racconto autobiografico, in gran parte legato agli esordi artistici, di Bob Dylan, il musicista che ha segnato una pietra miliare nella storia della musica rock partendo dalle sue stesse radici folk.
Il primo volume delle Chronicles si sofferma soprattutto sull'epica degli inizi: l'amore per Woody Guthrie ed Hank Williams, Fred Neil che lo vuole scritturare per uno spettacolo con tanto di fenomeni da baraccone, la nascita del nome d'arte, il rapporto personale con lo stesso Woody Guthrie, lo stallo degli anni '80 e la sensazione di non riuscire più a cantare in pubblico. E poi le parole di grandissimo apprezzamento per Joan Baez, quelle divertite su quel pazzo di David Crosby e un intero capitolo dedicato al rapporto con Daniel Lanois, l'artefice della sua rinascita artistica.
In tutto questo andare avanti e indietro nel tempo, con moltissime considerazioni personali sull'umanità, la letteratura, la politica, la canzone, il senso della musica, il cinema, Dylan dedica appena una riga all'incidente con la motocicletta che ebbe nel 1966 e che quasi gli costò la vita: "Ho avuto un incidente in motocicletta e sono rimasto ferito, ma sono guarito. La verità è che volevo tirarmi fuori dalla concorrenza".
Il primo volume delle Chronicles si sofferma soprattutto sull'epica degli inizi: l'amore per Woody Guthrie ed Hank Williams, Fred Neil che lo vuole scritturare per uno spettacolo con tanto di fenomeni da baraccone, la nascita del nome d'arte, il rapporto personale con lo stesso Woody Guthrie, lo stallo degli anni '80 e la sensazione di non riuscire più a cantare in pubblico. E poi le parole di grandissimo apprezzamento per Joan Baez, quelle divertite su quel pazzo di David Crosby e un intero capitolo dedicato al rapporto con Daniel Lanois, l'artefice della sua rinascita artistica.
In tutto questo andare avanti e indietro nel tempo, con moltissime considerazioni personali sull'umanità, la letteratura, la politica, la canzone, il senso della musica, il cinema, Dylan dedica appena una riga all'incidente con la motocicletta che ebbe nel 1966 e che quasi gli costò la vita: "Ho avuto un incidente in motocicletta e sono rimasto ferito, ma sono guarito. La verità è che volevo tirarmi fuori dalla concorrenza".
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martedì 22 dicembre 2015
Emiliano Fittipaldi: Avarizia (2015, Feltrinelli)
Avarizia, il libro che il giornalista Emiliano Fittipaldi ha
potuto scrivere soprattutto grazie alla mediazione di una talpa interna al
Vaticano, è stato uno dei casi prima editoriali e poi giudiziari dell’anno. Tanta
fama – che è costata all’autore una sorta di impeachment davanti alla Santa
Sede - è originata dal fatto che qualcuno abbia messo il naso su faccende
secretate da sempre, scoperchiando il vaso di Pandora delle impudicizie
commesse “with God on our side”: impeccabile dimostrazione di come in Italia si
sia inclini a subire le ingerenze di uno staterello estero quando ci sono
interessi enormi in ballo e della disinvoltura con cui eleviamo al
rango di martiri i marò che hanno inopinatamente assassinato due pescatori. Due
pesi e due misure.
Come se non fossero bastate la svolta istituzionalizzatrice
di Paolo di Tarso, le crociate, Torquemada, la vendita delle indulgenze, la
copertura dei preti pedofili o il recentissimo scandalo Caritas sui soldi
destinati ai profughi finiti chissà come nelle tasche sbagliate, grazie alla
fittissima documentazione proposta dal gionalista partenopeo la storia della Chiesa si
arricchisce di un capitolo vecchio nelle sue origini ma nuovissimo quanto a
rivelazione pubblica dei risvolti più scottanti.
Fin dalle primissime pagine si resta sconcertati dalle
capacità tentacolari mostrate dal Vaticano di arraffare con la massima
cupidigia in ogni settore, dalle trattative con i palazzinari alle televisioni
porno in Slovenia, in barba a qualsiasi principio di carità cristiana.
Se i casi assurti alla cronaca giudiziaria relativi ai soldi
impiegati per la ristrutturazione dell’appartamento del cardinale Tarcisio
Bertone sono ormai noti a tutti (le abitazioni di gran pregio destinati ai
prelati non sono l'eccezione, ma la regola e c’è gente come Camillo Ruini che vive
in 500 metri quadrati), l’elenco di prove dell’avidità di casa in Vaticano
riportato da Fittipaldi è sterminato. Si apprende così che, per fare qualche
esempio, la pompa di benzina, la farmacia, il tabaccaio e il supermercato fanno
più incassi di Michelangelo e Raffaello, di giardini e delle ville pontificie
messe insieme o che, stando a uno studio del California wine Institute, nel
2012 il Vaticano risulta essere il paese con il più alto consumo di vino al mondo. Segno che, oltre alla ridottissima
popolazione locale, esiste un esercito di sanguisughe che si rifocilla al
ricchissimo piatto del vicino di casa, con danni ingenti per l’erario italiano.
Vicino che, facendo leva prima sui patti Lateranensi, quindi sulla solidarietà
di Craxi e infine su quella dell’attuale presidente del consiglio (nel 2014,
grazie alla legge sull'8x1000, la Cei ha ottenuto l’80,2% dell'intero importo
erogato dai contribuenti che scelgono di destinare una quota delle loro tasse
allo Stato o alle confessioni religiose), si guarda bene dal pagare qualsiasi
tassa sugli immobili ubicati nel territorio italiano. Escludendo ville,
palazzi, auditorium, chiese, eccetera, sapete quanti sono? Soltanto a Roma il
Vaticano possiede circa 5000 appartamenti. Oltre all'immenso real estate, il
Vaticano possiede azioni, liquidi, obbligazioni, suoi e per conto terzi, e
asset finanziari che valgono tra gli 8 e il 9 miliardi di euro.
I mecenati della rinascita finanziaria di una Chiesa che
negli anni Settanta vivacchiava grazie alle prebende dei credenti e al beneplacito
dello Stato italiano sono stati soprattutto Paul Marcinkus e Karol Wojtyla, tramite
istituzioni come lo Ior e Propaganda Fide. Se sulla prima si sa già moltissimo
fin dai tempi in cui Marco Pannella andava sbandierando le trame oscure
dell’arcivescovo statunitense, la seconda - una
congregazione nata per diffondere il verbo di Gesù negli angoli più
lontani e poveri del mondo con il compito di coordinare le missioni evangeliche
nel cinque continenti - possiede immobili e appartamenti mozzafiato a Piazza di
Spagna, nelle vicine via della Vite e via Sistina. È proprietaria di mezza via
Margutta e di attici meravigliosi in via del Babuino. Tanto understatement
finanziario è reso possibile, tra l’altro, dagli affari realizzati con
personaggi come Nicola Cosentino, ex segretario all'economia del governo
Berlusconi, arrestato per presunti rapporti con il clan dei Casalesi.
Quasi duole non vedere Fittipaldi affondare il colpo su
Giovanni Paolo II, l’amico di Pinochet che ha modernizzato la vendita delle indulgenze
con un fittissimo programma di canonizzazioni: durante i 27 anni del suo
pontificato il papa tanto amato dal popolo bue ha proclamato 1338 beati e 482
santi, quasi un quarto di tutti quelli canonizzati nei precedenti cinque
secoli. Mentre nel frattempo contribuiva al flagello dell’Aids in Africa.
Con Bergoglio la Chiesa, oltre ad avere un periodico in più
in edicola (Il mio papa meriterebbe uno studio degno di Baudrillard sulla
fenomenologia del divismo), sembra aver cambiato strada. L’operazione di
restyling morale passa per la parola povertà, ripetuta ossessivamente a ogni circostanza
(specialmente se ci sono telecamere accese nelle vicinanze), salvo poi prendere
le distanze dalle aperture progressiste del sindaco Marino in materia di unioni
civili o affidarsi a un personaggio come George Pell per dare una controllatina
alla contabilità vaticana. Rimane qualche perplessità in merito all’ingenuità di papa Francesco,
che pare non sapere che l'uomo che lui stesso ha scelto per rimettere a posto
le finanze in Australia è finito in un'inchiesta del governo sulla pedofilia. L’arcivescovo
si è giustificato paragonando i sacerdoti pedofili ad autotrasportatori e la
Chiesa a un'azienda di Tir: se il camionista guida ubriaco, la colpa mica è
dell’azienda dei trasporti, che diamine!
Le amenità di questo saggio che riporta fatti degni di un
romanzo di Dan Brown non finiscono ovviamente qui: basterebbe ricordare come il
Vaticano ha messo le mani sulla sanità grazie a ospedali come il Bambin Gesù (che
ha investito in azioni della Exxon, la multinazionale del petrolio costretta
negli anni passati a pagare miliardi di dollari di multe per frodi finanziarie
e disastri ecologici), l'Istituto dermopatico dell'Immacolata e il policlinico Gemelli
o, più banalmente, l’obolo di €1,50 richiesto soltanto di recente per varcare l’uscio
della basilica di S.Pietro.
Il libro ha dalla sua una documentazione fittissima fino
allo zelo, con tanto di fotocopia dei materiali che provano le affermazioni
dell’autore, in un diluvio contabile che va tuttavia a forte scapito della prosa. Sembra
di leggere uno di quei volumi zeppi di virgolettati giudiziari che scrivono Gomez
e Travaglio. Con il risultato che, se non si hanno l’anello al naso e la
sveglia al collo, sembra quasi impossibile, in un’epoca di pluralismo dell’informazione,
non conoscere già la sostanza della faccenda. Con la sola consolazione di
vederla ribadita dopo più di 200 pagine di lettura.
venerdì 18 settembre 2015
Hartmut Rosa - Accelerazione e alienazione (Einaudi, 2015)
La società dromologica nella quale viviamo ci impone tempi
sempre più serrati, ci costringe a un affanno costante, restituendoci la
sensazione di una continua mancanza di tempo. Il sociologo tedesco Hartmut
Rosa, che si occupa di queste tematiche da diversi anni, compie un tentativo
avvincente e in gran parte riuscito sul piano teoretico (ma con significativi
accorgimenti metodologici) di riportare il problema dell’accelerazione entro il
perimetro della teoria critica di ispirazione francofortese, facendo sponda su
un concetto come quello di alienazione di chiara matrice marxista e quindi nel
solco della formazione di Horkheimer, Adorno, Habermas, etc. In un afflato che
si direbbe più di filosofia sociale che di sociologia, Rosa si domanda se si
possa dire una vita buona (la εὐδαιμονία
dei filosofi greci) quella che viene spesa nel’ossessione della velocità e
della competizione. La risposta è abbastanza ovvia ma ciò che rileva nel libro
è l’argomentazione fittissima a cui il professor Rosa ricorre.
Da un lato la pace di Vestfalia (1648), dall’altro la prima
rivoluzione industriale nel secolo successivo costituiscono per Rosa le pietre
angolari sulle quali è stato eretto l’edificio della società
dell’accelerazione. La prima perché avrebbe innescato la competizione tra Stati
nazionali, la seconda perché ne sarebbe diventata lo strumento. Ecco quindi che
nel breve lasso di tempo che trascorre tra la prima modernità (il ‘700) e la
tarda modernità (oggi), gli individui si sono trovati a vivere un salto che da
intergenerazionale si è fatto prima generazionale durante la modernità
“classica” e quindi intragenerazionale. Attingendo da Laslett, Rosa chiarisce cioè
che conformemente a quanto appena detto “la struttura della famiglia tipo nelle
società agricole tendeva a rimanere stabile nei secoli e il cambio
generazionale lasciava intatta la struttura di base. Nella modernità classica
(all’incirca tra il 1850 e il 1970) la struttura era invece pensata per durare
una generazione: era organizzata attorno a una coppia e tendeva a dissolversi
con la morte dei coniugi. Nella tarda modernità si osserva una tendenza
crescente da parte dei cicli di vita famigliare a durare meno della vita
dell’individuo: aumento di divorzi e nuovi matrimoni sono la prova più evidente
di questo fatto”. Con quali conseguenze? Devastanti, è quasi pleonastico dirlo,
e coinvolgenti l’intera esistenza dell’individuo, la sua identità, il suo
rapporto con lo spazio, con la politica, con gli altri. Per Rosa la presenza
prominente dell’accelerazione, in larghissima parte effetto
dell’industrializzazione e della conseguente trasformazione del capitalismo, è
stata il vettore di una forza totalitaria che assorbe ormai una grandissima
parte del passaggio, per dirla con Koyrè, dal mondo del pressappoco
all’universo della precisione. L’accelerazione delle macchine e della
tecnologia non ha affatto mantenuto la promessa liberatrice che portava con sé.
Al contrario, ci ha messo nelle condizioni di sentirci tutti in colpa alla fine
della giornata, “perché non abbiamo soddisfatto le aspettative. Non siamo mai
in grado di arrivare alla fine della nostra ‘lista di cose da fare’, anzi la
distanza dal fondo di quell’ammasso di roba cresce ogni giorno”. Questo meccanismo,
a detta dell’autore di Accelerazione e alienazione, non solo si applica “ai
lavoratori salariati, ma anche ai datori di lavoro e ai dirigenti: nessuno di
loro ha mai potuto controllare le regole del gioco, ma solo imparare a giocare
bene”.
In questa prospettiva è comprensibile che il notissimo
apoftegma di Blade runner, “La luce che arde col doppio di splendore brucia per
metà tempo”, rischi di potersi attagliare non soltanto ad alti dirigenti,
intellettuali e gente super indaffarata (la comunità sociologica potrebbe
richiamare alla memoria il caso di Statera), ma persino all’arte, tanto è vero
che quella stessa frase campeggia come epitaffio sulla tomba di Jimi Hendrix,
sebbene postuma (il film fu girato 12 anni dopo la morte del chitarrista
americano). Siamo tutti schiavi del multitasking, insomma.
Tornando a Rosa e alle sue osservazioni sugli esiti
dell’accelerazione nelle nostre vite, egli, come si accennava, riporta esempi
dai campi più disparati. Innanzitutto l’identità, che oggi si è fatta per così
dire “situazionale”, addirittura “usa e getta”. Prendendo spunto da Simmel
(1903), che agli effetti dell’industrializzazione sulla formazioni urbane
dedicò una parte fondamentale della sua opera, Rosa ci ricorda ad esempio che,
al contrario di quanto avveniva in passato, “molto di rado abbiamo a che fare
con persone che sono state testimoni di tutto l’arco della nostra vita: una
cosa, questa, che ha conseguenze anche sulle forme moderne di soggettività”. Non
sorprende allora che una delle risposte che gli individui danno a questa frammentazione
e ingovernabilità dell’identità sia la ricerca della gratificazione istantanea attraverso
i comportamenti di consumo.
Dentro questa metamorfosi della soggettività c’è anche la
contrazione dello spazio, l’aumento dei voli intercontinentali che rendono
possibili amicizie con persone fisicamente assai lontane, i rapporti mediati
dai social network. Da questo punto di vista, l’uomo della tarda modernità è
costretto ad adattarsi a uno stile relazionale che nell’arco di una sola vita
(la sua) gli impone compiere una trasformazione che l’intera storia
dell’umanità non ha ancora realizzato. Per dirla con un paio di paroloni,
l’ontogenesi dell’individuo si separa nettamente dalla filogenesi della sue
specie, costringendolo a un adattamento cognitivo del suo rapporto con lo
spazio. Su questo punto il pensiero di Rosa si fa icastico: “la vicinanza e la
distanza sociale ed emotiva – scrive il sociologo tedesco – non sono più legate
al fattore spaziale, tanto che il nostro vicino può essere per noi un perfetto
estraneo, mentre qualcuno dall’altra parte del globo potrebbe essere il nostro
partner più intimo”.
Parimenti, anche la politica e i processi democratici sono
messi a dura prova dai meccanismi di accelerazione: se già una ventina d’anni
fa Popkin e Dimock (1996) parlavano di “scorciatoie informative” a proposito
delle scelte elettorali dei cittadini, oggi questo meccanismo è stato
ulteriormente contaminato dalla svolta “estetica” della politica, con una
predominanza dell’essere più “trendy” o “cool” rispetto a idee e programmi, con
inevitabili ricadute sulla volubilità dell’elettore, capacissimo di cambiare
repentinamente sponda rispetto a proposte politiche sempre meno differenziate. Anche
per questo – suggerisce Rosa – “l’idea di guida da parte della politica si è
trasformata da strumento di dinamicizzazione sociale, nella prima età moderna e
nella modernità classica, a barriera e ostacolo a un’ulteriore accelerazione in
condizioni tardomoderne. Per questo il progetto neoliberale degli ultimi
vent’anni perseguiva il progetto di rendere più veloce la società (e in
particolare i flussi di capitale) riducendo o addirittura sradicando il
controllo o la guida politica – attraverso misure di deregolamentazione,
privatizzazione e giuridificazione”.
Il notissimo motto di Benjamin Franklin secondo il quale il
tempo è denaro ha dunque investito non soltanto il mondo della politica e degli
affari, ma quasi qualsiasi attività umana, al punto da ergere a diktat
teleologico il valore tanto dell’uno quanto dell’altro. Competizione è
diventata di conseguenza la parola d’ordine e “poiché guadagniamo stima sociale
attraverso la competizione, la velocità è essenziale per la mappa del
riconoscimento nelle società moderne. Dobbiamo essere veloci e flessibili per
guadagnare (e preservare) il riconoscimento sociale, ma allo stesso tempo è
proprio il nostro desiderio di riconoscimento a muovere incessantemente le
ruote dell’accelerazione”. Da questo processo aberrante e, appunto, alienante,
non sono immuni né la scienza, che ha creato la tecnologia che ha a sua volta
determinato l’accelerazione, né tanto meno l’Università. Lo dimostra il fatto
che nel mondo accademico viviamo sotto lo spauracchio del “pubblica o muori”,
con la conseguenza che le pubblicazioni sono sempre più spezzettate,
rapsodiche, istantanee, spesso prive di quel carattere di riflessione che
necessiterebbe all’uopo, col risultato paradossale che, con i criteri oggi vigenti,
Ferrarotti non otterrebbe l’abilitazione e potremmo scordarci le ricerche
seminali e pionieristiche dei coniugi Lynd, di Thomas e Znaniecki o di Kinsey:
tutte hanno richiesto troppo tempo per essere pubblicate.
Se a Rosa va riconosciuto il rigore argomentativo, il
continuo tentativo di proporre soluzioni e la capacità si segnalare i paradossi
di questa situazione (il cui emblema è l’ingorgo stradale) al problema del
livello empirico della questione, qualche perplessità sorge in merito alle
soluzioni che, comprensibilmente, non vengono esplicitate. Rosa concede pochissimo
spazio ai teorici della decrescita o ai sostenitori dei modelli slow, né prende
in considerazione possibili manifestazioni di luddismo. In filigrana sembra di
leggere una felpata rassegnazione, sebbene in opere precedenti sullo stesso
tema il sociologo tedesco abbia proposto una democratizzazione radicale delle
pratiche sociali in cui siamo immersi. A meno di non voler continuare a vivere
una vita nella quale è la tecnica a dettare le regole. Ma, si sa, siamo tutti
figli del nostro tempo. E quello attuale è così.
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venerdì 7 agosto 2015
Giuseppe Antonelli: Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 2014)
Il titolo è una provocazione tutt’altro che priva di senso.
In ossequio a un’immagine “austera e monumentale attribuita ai grandi
personaggi del passato”, ci è quasi impossibile credere che Leopardi, nella
sua corrispondenza, facesse
ricorso così frequente a un turpiloquio composto da parole con la doppia zeta. È solo una delle tante sorprese che Giuseppe Antonelli,
docente di Storia della lingua italiana all’università di Cassino nonché
conduttore della fortunata trasmissione radiofonica La lingua batte, propone
al lettore in questa agilissima antologia di riflessioni sulla lingua italiana
e sui falsi miti che la affliggono. A cominciare dall’idea (infondata, sostiene
l’autore) che l’italiano sia alla deriva e a proseguire con una divertentissima
e sempre ottimamente documentata rassegna di osservazioni e curiosità che
testimoniano l’andamento ondivago della lingua nazionale, la sua metamorfosi
continua, l’impossibilità di ingabbiarla all’interno di regole fissate una
volta per tutte. In questa raccolta gustosissima di aneddoti e riflessioni che
poggiano con disinvoltura tanto su elementi colti quanto sulla cultura pop che
tanto piace all’autore apprendiamo dunque che fino a tutti gli anni ’70 le
grammatiche vietavano l’uso di “lui” e “lei” come soggetto, preferendo ad essi
“egli” ed “ella”, termini che oggi appaiono desueti soprattutto nel parlato.
Così come veniamo a sapere che alcune forme del congiuntivo come “dichi” e
“venghi” non sono solo il frutto della comicità del ragionier Fantozzi, ma
forme usate già dai padri della lingua (vadi era forma leopardiana, facci
dantesca, venghi boccacciana). Il tono leggero ma mai superficiale torna a
farsi accademico nelle occasioni in cui Antonelli chiosa a modo suo alcuni
punti nodali come per esempio quello della punteggiatura, rispetto al quale ci
ricorda che si è da tempo diffusa una “concezione ingenua della punteggiatura.
Quella per cui l’interpunzione servirebbe a riproporre le pause del parlato e
non – come invece è – a segnalare i legami tra le varie parti di un testo”. Ma allora:
queste regole esistono o no? Il filo rosso del volume pubblicato da Mondadori
contrappone costantemente la ragionevolezza delle regole con la necessità di
non inamidare la lingua, lasciandola percorrere dalle suggestioni che
provengono dalla società, dai passaggi delle mode (dal cioè al piuttosto che
usato con funzione disgiuntiva), dalla radicale metamorfosi della funzione dei
dialetti (oggi definitivamente sdoganati e non più indizio di inferiorità
culturale), dall’influenza di neologismi e tecnologia. E, a proposito di
tecnologia, alcune delle pagine più interessanti e divertenti sono quelle nelle
quali si parla degli errori dei correttori ortografici, che finiscono
inevitabilmente per segnalare il problema di chi debba correggere il
correttore. Né meno divertenti sono le pagine in cui l’autore si fa beffa delle
ridicolaggini di un certo purismo bacchettone – che nel Codice di
autodisciplina della televisione vietò parole come vizio, membro e seno,
persino in espressioni come in seno all’assemblea – o del fascismo, che nel suo
tentativo di italianizzare parole come cocktail (diventato “arlecchino”) o
sauté di cozze (trasformato in “sfritto”) venne turlupinato da Tullio De Mauro,
il quale ipotizzò che la locuzione “Per Benito” non fosse altro che il
participio passato del verbo perbenire (io perbenisco, tu perbenisci, ecc).
Se i contenuti sono costantemente frizzanti, la prosa non è
da meno. Mostrando un gusto inarginabile per il calembour, l’autore infila
nella sua scrittura sempre chiarissima una serie di invenzioni linguistiche
frutto di una formidabile creatività: per questa strada, le regole della
punteggiatura diventano un “solfeggio in quattro quarti usato da alcune
grammatiche”, le abbreviazioni dello scritto – che a noi paiono un’invenzione
resa necessaria da sms e Twitter ma che invece erano già diffusissime nell’Ottocento
per poter risparmiare sull’invio della missiva – potevano essere accompagnate
da un testo a “interlinea zero” (il riferimento è un altro, ma non importa). Con
inevitabile passaggio dall’epistola all’e-pistola, con la quale si possono
sparare colpi a suon d’acronimato (t.v.b.), magari in barba al solito piatto
del giorno (le linguine alla norma) e con un occhio (anzi due) sull’e-taliano.
E se poi qualche congiuntivo vi va di traverso, pazienza. Tanto, si sa, il
congiuntivo è come il colesterolo (è sempre Antonelli che scrive): “c’è quello
buono e quello cattivo”. Un’effervescenza che fremita a ogni pagina anche attraverso
analogie assai creative, come quando l’autore, a proposito dei tormentoni,
indica le canzoni come “una specie di carbonio 14 dei tormentoni linguistici”.
Unico neo (a parte un uso poco sorvegliato del verbo
chiedere in luogo di domandare, distinzione che il linguista dovrebbe conoscere a menadito) è il metodo: torna spesso l’impressione che nel suo indomabile
ottimismo Antonelli finisca per ridurre le ipotesi (linguistiche) a teorema,
come quando opera confronti tra epoche diverse per dimostrare che, per esempio,
non è vero che prima si scriveva bene e adesso no. Il metodologo si
aspetterebbe un confronto a campione su testi di origine diversa, laddove
l’autore prende tre esempi da qui e tre da là e dice: vedete? Sono uguali!
Robetta in confronto agli stimoli che un libro come questo
può fornire anche ai non addetti ai lavori, per i quali il sottotitolo non
potrebbe essere più veritiero: “l’italiano come non ve lo hanno mai raccontato".
È proprio vero!
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