domenica 18 luglio 2021

Eshkol Nevo: Tre piani (2015, Neri Pozza)

Quale altro buon motivo per leggere Tre piani, dello scrittore israeliano Eshkol Nevo (nella traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi), se non quello di portarsi avanti con il lavoro in vista dell’uscita del film omonimo di Nanni Moretti, il primo il cui soggetto non sia uscito dal suo pugno? I tre piani del titolo sono quelli di un condominio di Tel Aviv, dove vivono persone con problemi di diversa natura, tutti in qualche modo borderline. Al di là della trama, ciò che colpisce del libro è l’assoluta insipienza letteraria, la totale mancanza di inventiva non tanto e non solo sul piano lessicale (sarebbe un torto alle due traduttrici), quanto su quello dell’immaginazione, delle figure retoriche, della capacità di racconto, intarsiata – come ormai è di moda – da riferimenti alti e bassi. Tutto si avvita sui tormenti solipsistici dei tre protagonisti, angustiati da situazioni indubbiamente pesanti e dall’enorme carico emotivo. Ma nel romanzo non c’è finezza psicologica, così come latita la capacità di dissezionare il malessere dei protagonisti e tutto sembra ruotare sulla definizione a grana grossa del mood malmostoso che inonda l’intero libro. Vedremo se Moretti, con la sua formidabile sensibilità, saprà dare spessore a questi personaggi monodimensionali.

lunedì 3 aprile 2017

Bob Dylan: Chronicles. Volume 1 (2004, Feltrinelli)

Cafè Wha, Bleecker Street, MacDougall street, Gaslight: sono questi alcuni dei luoghi presso i quali si sviluppa il racconto autobiografico, in gran parte legato agli esordi artistici, di Bob Dylan, il musicista che ha segnato una pietra miliare nella storia della musica rock partendo dalle sue stesse radici folk.
Il primo volume delle Chronicles si sofferma soprattutto sull'epica degli inizi: l'amore per Woody Guthrie ed Hank Williams, Fred Neil che lo vuole scritturare per uno spettacolo con tanto di fenomeni da baraccone, la nascita del nome d'arte, il rapporto personale con lo stesso Woody Guthrie, lo stallo degli anni '80 e la sensazione di non riuscire più a cantare in pubblico. E poi le parole di grandissimo apprezzamento per Joan Baez, quelle divertite su quel pazzo di David Crosby e un intero capitolo dedicato al rapporto con Daniel Lanois, l'artefice della sua rinascita artistica.
In tutto questo andare avanti e indietro nel tempo, con moltissime considerazioni personali sull'umanità, la letteratura, la politica, la canzone, il senso della musica, il cinema, Dylan dedica appena una riga all'incidente con la motocicletta che ebbe nel 1966 e che quasi gli costò la vita: "Ho avuto un incidente in motocicletta e sono rimasto ferito, ma sono guarito. La verità è che volevo tirarmi fuori dalla concorrenza".

martedì 22 dicembre 2015

Emiliano Fittipaldi: Avarizia (2015, Feltrinelli)


Avarizia, il libro che il giornalista Emiliano Fittipaldi ha potuto scrivere soprattutto grazie alla mediazione di una talpa interna al Vaticano, è stato uno dei casi prima editoriali e poi giudiziari dell’anno. Tanta fama – che è costata all’autore una sorta di impeachment davanti alla Santa Sede - è originata dal fatto che qualcuno abbia messo il naso su faccende secretate da sempre, scoperchiando il vaso di Pandora delle impudicizie commesse “with God on our side”: impeccabile dimostrazione di come in Italia si sia inclini a subire le ingerenze di uno staterello estero quando ci sono interessi enormi in ballo e della disinvoltura con cui eleviamo al rango di martiri i marò che hanno inopinatamente assassinato due pescatori. Due pesi e due misure.
Come se non fossero bastate la svolta istituzionalizzatrice di Paolo di Tarso, le crociate, Torquemada, la vendita delle indulgenze, la copertura dei preti pedofili o il recentissimo scandalo Caritas sui soldi destinati ai profughi finiti chissà come nelle tasche sbagliate, grazie alla fittissima documentazione proposta dal gionalista partenopeo la storia della Chiesa si arricchisce di un capitolo vecchio nelle sue origini ma nuovissimo quanto a rivelazione pubblica dei risvolti più scottanti.
Fin dalle primissime pagine si resta sconcertati dalle capacità tentacolari mostrate dal Vaticano di arraffare con la massima cupidigia in ogni settore, dalle trattative con i palazzinari alle televisioni porno in Slovenia, in barba a qualsiasi principio di carità cristiana.
Se i casi assurti alla cronaca giudiziaria relativi ai soldi impiegati per la ristrutturazione dell’appartamento del cardinale Tarcisio Bertone sono ormai noti a tutti (le abitazioni di gran pregio destinati ai prelati non sono l'eccezione, ma la regola e c’è gente come Camillo Ruini che vive in 500 metri quadrati), l’elenco di prove dell’avidità di casa in Vaticano riportato da Fittipaldi è sterminato. Si apprende così che, per fare qualche esempio, la pompa di benzina, la farmacia, il tabaccaio e il supermercato fanno più incassi di Michelangelo e Raffaello, di giardini e delle ville pontificie messe insieme o che, stando a uno studio del California wine Institute, nel 2012 il Vaticano risulta essere il paese con il più alto consumo di vino al mondo. Segno che, oltre alla ridottissima popolazione locale, esiste un esercito di sanguisughe che si rifocilla al ricchissimo piatto del vicino di casa, con danni ingenti per l’erario italiano. Vicino che, facendo leva prima sui patti Lateranensi, quindi sulla solidarietà di Craxi e infine su quella dell’attuale presidente del consiglio (nel 2014, grazie alla legge sull'8x1000, la Cei ha ottenuto l’80,2% dell'intero importo erogato dai contribuenti che scelgono di destinare una quota delle loro tasse allo Stato o alle confessioni religiose), si guarda bene dal pagare qualsiasi tassa sugli immobili ubicati nel territorio italiano. Escludendo ville, palazzi, auditorium, chiese, eccetera, sapete quanti sono? Soltanto a Roma il Vaticano possiede circa 5000 appartamenti. Oltre all'immenso real estate, il Vaticano possiede azioni, liquidi, obbligazioni, suoi e per conto terzi, e asset finanziari che valgono tra gli 8 e il 9 miliardi di euro.
I mecenati della rinascita finanziaria di una Chiesa che negli anni Settanta vivacchiava grazie alle prebende dei credenti e al beneplacito dello Stato italiano sono stati soprattutto Paul Marcinkus e Karol Wojtyla, tramite istituzioni come lo Ior e Propaganda Fide. Se sulla prima si sa già moltissimo fin dai tempi in cui Marco Pannella andava sbandierando le trame oscure dell’arcivescovo statunitense, la seconda - una  congregazione nata per diffondere il verbo di Gesù negli angoli più lontani e poveri del mondo con il compito di coordinare le missioni evangeliche nel cinque continenti - possiede immobili e appartamenti mozzafiato a Piazza di Spagna, nelle vicine via della Vite e via Sistina. È proprietaria di mezza via Margutta e di attici meravigliosi in via del Babuino. Tanto understatement finanziario è reso possibile, tra l’altro, dagli affari realizzati con personaggi come Nicola Cosentino, ex segretario all'economia del governo Berlusconi, arrestato per presunti rapporti con il clan dei Casalesi.
Quasi duole non vedere Fittipaldi affondare il colpo su Giovanni Paolo II, l’amico di Pinochet che ha modernizzato la vendita delle indulgenze con un fittissimo programma di canonizzazioni: durante i 27 anni del suo pontificato il papa tanto amato dal popolo bue ha proclamato 1338 beati e 482 santi, quasi un quarto di tutti quelli canonizzati nei precedenti cinque secoli. Mentre nel frattempo contribuiva al flagello dell’Aids in Africa.
Con Bergoglio la Chiesa, oltre ad avere un periodico in più in edicola (Il mio papa meriterebbe uno studio degno di Baudrillard sulla fenomenologia del divismo), sembra aver cambiato strada. L’operazione di restyling morale passa per la parola povertà, ripetuta ossessivamente a ogni circostanza (specialmente se ci sono telecamere accese nelle vicinanze), salvo poi prendere le distanze dalle aperture progressiste del sindaco Marino in materia di unioni civili o affidarsi a un personaggio come George Pell per dare una controllatina alla contabilità vaticana. Rimane qualche perplessità in merito all’ingenuità di papa Francesco, che pare non sapere che l'uomo che lui stesso ha scelto per rimettere a posto le finanze in Australia è finito in un'inchiesta del governo sulla pedofilia. L’arcivescovo si è giustificato paragonando i sacerdoti pedofili ad autotrasportatori e la Chiesa a un'azienda di Tir: se il camionista guida ubriaco, la colpa mica è dell’azienda dei trasporti, che diamine!
Le amenità di questo saggio che riporta fatti degni di un romanzo di Dan Brown non finiscono ovviamente qui: basterebbe ricordare come il Vaticano ha messo le mani sulla sanità grazie a ospedali come il Bambin Gesù (che ha investito in azioni della Exxon, la multinazionale del petrolio costretta negli anni passati a pagare miliardi di dollari di multe per frodi finanziarie e disastri ecologici), l'Istituto dermopatico dell'Immacolata e il policlinico Gemelli o, più banalmente, l’obolo di €1,50 richiesto soltanto di recente per varcare l’uscio della basilica di S.Pietro.
Il libro ha dalla sua una documentazione fittissima fino allo zelo, con tanto di fotocopia dei materiali che provano le affermazioni dell’autore, in un diluvio contabile che va tuttavia a forte scapito della prosa. Sembra di leggere uno di quei volumi zeppi di virgolettati giudiziari che scrivono Gomez e Travaglio. Con il risultato che, se non si hanno l’anello al naso e la sveglia al collo, sembra quasi impossibile, in un’epoca di pluralismo dell’informazione, non conoscere già la sostanza della faccenda. Con la sola consolazione di vederla ribadita dopo più di 200 pagine di lettura.

venerdì 18 settembre 2015

Hartmut Rosa - Accelerazione e alienazione (Einaudi, 2015)



La società dromologica nella quale viviamo ci impone tempi sempre più serrati, ci costringe a un affanno costante, restituendoci la sensazione di una continua mancanza di tempo. Il sociologo tedesco Hartmut Rosa, che si occupa di queste tematiche da diversi anni, compie un tentativo avvincente e in gran parte riuscito sul piano teoretico (ma con significativi accorgimenti metodologici) di riportare il problema dell’accelerazione entro il perimetro della teoria critica di ispirazione francofortese, facendo sponda su un concetto come quello di alienazione di chiara matrice marxista e quindi nel solco della formazione di Horkheimer, Adorno, Habermas, etc. In un afflato che si direbbe più di filosofia sociale che di sociologia, Rosa si domanda se si possa dire una vita buona (la εδαιμονία dei filosofi greci) quella che viene spesa nel’ossessione della velocità e della competizione. La risposta è abbastanza ovvia ma ciò che rileva nel libro è l’argomentazione fittissima a cui il professor Rosa ricorre.
Da un lato la pace di Vestfalia (1648), dall’altro la prima rivoluzione industriale nel secolo successivo costituiscono per Rosa le pietre angolari sulle quali è stato eretto l’edificio della società dell’accelerazione. La prima perché avrebbe innescato la competizione tra Stati nazionali, la seconda perché ne sarebbe diventata lo strumento. Ecco quindi che nel breve lasso di tempo che trascorre tra la prima modernità (il ‘700) e la tarda modernità (oggi), gli individui si sono trovati a vivere un salto che da intergenerazionale si è fatto prima generazionale durante la modernità “classica” e quindi intragenerazionale. Attingendo da Laslett, Rosa chiarisce cioè che conformemente a quanto appena detto “la struttura della famiglia tipo nelle società agricole tendeva a rimanere stabile nei secoli e il cambio generazionale lasciava intatta la struttura di base. Nella modernità classica (all’incirca tra il 1850 e il 1970) la struttura era invece pensata per durare una generazione: era organizzata attorno a una coppia e tendeva a dissolversi con la morte dei coniugi. Nella tarda modernità si osserva una tendenza crescente da parte dei cicli di vita famigliare a durare meno della vita dell’individuo: aumento di divorzi e nuovi matrimoni sono la prova più evidente di questo fatto”. Con quali conseguenze? Devastanti, è quasi pleonastico dirlo, e coinvolgenti l’intera esistenza dell’individuo, la sua identità, il suo rapporto con lo spazio, con la politica, con gli altri. Per Rosa la presenza prominente dell’accelerazione, in larghissima parte effetto dell’industrializzazione e della conseguente trasformazione del capitalismo, è stata il vettore di una forza totalitaria che assorbe ormai una grandissima parte del passaggio, per dirla con Koyrè, dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. L’accelerazione delle macchine e della tecnologia non ha affatto mantenuto la promessa liberatrice che portava con sé. Al contrario, ci ha messo nelle condizioni di sentirci tutti in colpa alla fine della giornata, “perché non abbiamo soddisfatto le aspettative. Non siamo mai in grado di arrivare alla fine della nostra ‘lista di cose da fare’, anzi la distanza dal fondo di quell’ammasso di roba cresce ogni giorno”. Questo meccanismo, a detta dell’autore di Accelerazione e alienazione, non solo si applica “ai lavoratori salariati, ma anche ai datori di lavoro e ai dirigenti: nessuno di loro ha mai potuto controllare le regole del gioco, ma solo imparare a giocare bene”.
In questa prospettiva è comprensibile che il notissimo apoftegma di Blade runner, “La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo”, rischi di potersi attagliare non soltanto ad alti dirigenti, intellettuali e gente super indaffarata (la comunità sociologica potrebbe richiamare alla memoria il caso di Statera), ma persino all’arte, tanto è vero che quella stessa frase campeggia come epitaffio sulla tomba di Jimi Hendrix, sebbene postuma (il film fu girato 12 anni dopo la morte del chitarrista americano). Siamo tutti schiavi del multitasking, insomma.
Tornando a Rosa e alle sue osservazioni sugli esiti dell’accelerazione nelle nostre vite, egli, come si accennava, riporta esempi dai campi più disparati. Innanzitutto l’identità, che oggi si è fatta per così dire “situazionale”, addirittura “usa e getta”. Prendendo spunto da Simmel (1903), che agli effetti dell’industrializzazione sulla formazioni urbane dedicò una parte fondamentale della sua opera, Rosa ci ricorda ad esempio che, al contrario di quanto avveniva in passato, “molto di rado abbiamo a che fare con persone che sono state testimoni di tutto l’arco della nostra vita: una cosa, questa, che ha conseguenze anche sulle forme moderne di soggettività”. Non sorprende allora che una delle risposte che gli individui danno a questa frammentazione e ingovernabilità dell’identità sia la ricerca della gratificazione istantanea attraverso i comportamenti di consumo.
Dentro questa metamorfosi della soggettività c’è anche la contrazione dello spazio, l’aumento dei voli intercontinentali che rendono possibili amicizie con persone fisicamente assai lontane, i rapporti mediati dai social network. Da questo punto di vista, l’uomo della tarda modernità è costretto ad adattarsi a uno stile relazionale che nell’arco di una sola vita (la sua) gli impone compiere una trasformazione che l’intera storia dell’umanità non ha ancora realizzato. Per dirla con un paio di paroloni, l’ontogenesi dell’individuo si separa nettamente dalla filogenesi della sue specie, costringendolo a un adattamento cognitivo del suo rapporto con lo spazio. Su questo punto il pensiero di Rosa si fa icastico: “la vicinanza e la distanza sociale ed emotiva – scrive il sociologo tedesco – non sono più legate al fattore spaziale, tanto che il nostro vicino può essere per noi un perfetto estraneo, mentre qualcuno dall’altra parte del globo potrebbe essere il nostro partner più intimo”.
Parimenti, anche la politica e i processi democratici sono messi a dura prova dai meccanismi di accelerazione: se già una ventina d’anni fa Popkin e Dimock (1996) parlavano di “scorciatoie informative” a proposito delle scelte elettorali dei cittadini, oggi questo meccanismo è stato ulteriormente contaminato dalla svolta “estetica” della politica, con una predominanza dell’essere più “trendy” o “cool” rispetto a idee e programmi, con inevitabili ricadute sulla volubilità dell’elettore, capacissimo di cambiare repentinamente sponda rispetto a proposte politiche sempre meno differenziate. Anche per questo – suggerisce Rosa – “l’idea di guida da parte della politica si è trasformata da strumento di dinamicizzazione sociale, nella prima età moderna e nella modernità classica, a barriera e ostacolo a un’ulteriore accelerazione in condizioni tardomoderne. Per questo il progetto neoliberale degli ultimi vent’anni perseguiva il progetto di rendere più veloce la società (e in particolare i flussi di capitale) riducendo o addirittura sradicando il controllo o la guida politica – attraverso misure di deregolamentazione, privatizzazione e giuridificazione”.
Il notissimo motto di Benjamin Franklin secondo il quale il tempo è denaro ha dunque investito non soltanto il mondo della politica e degli affari, ma quasi qualsiasi attività umana, al punto da ergere a diktat teleologico il valore tanto dell’uno quanto dell’altro. Competizione è diventata di conseguenza la parola d’ordine e “poiché guadagniamo stima sociale attraverso la competizione, la velocità è essenziale per la mappa del riconoscimento nelle società moderne. Dobbiamo essere veloci e flessibili per guadagnare (e preservare) il riconoscimento sociale, ma allo stesso tempo è proprio il nostro desiderio di riconoscimento a muovere incessantemente le ruote dell’accelerazione”. Da questo processo aberrante e, appunto, alienante, non sono immuni né la scienza, che ha creato la tecnologia che ha a sua volta determinato l’accelerazione, né tanto meno l’Università. Lo dimostra il fatto che nel mondo accademico viviamo sotto lo spauracchio del “pubblica o muori”, con la conseguenza che le pubblicazioni sono sempre più spezzettate, rapsodiche, istantanee, spesso prive di quel carattere di riflessione che necessiterebbe all’uopo, col risultato paradossale che, con i criteri oggi vigenti, Ferrarotti non otterrebbe l’abilitazione e potremmo scordarci le ricerche seminali e pionieristiche dei coniugi Lynd, di Thomas e Znaniecki o di Kinsey: tutte hanno richiesto troppo tempo per essere pubblicate.
Se a Rosa va riconosciuto il rigore argomentativo, il continuo tentativo di proporre soluzioni e la capacità si segnalare i paradossi di questa situazione (il cui emblema è l’ingorgo stradale) al problema del livello empirico della questione, qualche perplessità sorge in merito alle soluzioni che, comprensibilmente, non vengono esplicitate. Rosa concede pochissimo spazio ai teorici della decrescita o ai sostenitori dei modelli slow, né prende in considerazione possibili manifestazioni di luddismo. In filigrana sembra di leggere una felpata rassegnazione, sebbene in opere precedenti sullo stesso tema il sociologo tedesco abbia proposto una democratizzazione radicale delle pratiche sociali in cui siamo immersi. A meno di non voler continuare a vivere una vita nella quale è la tecnica a dettare le regole. Ma, si sa, siamo tutti figli del nostro tempo. E quello attuale è così.

venerdì 7 agosto 2015

Giuseppe Antonelli: Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 2014)



Il titolo è una provocazione tutt’altro che priva di senso. In ossequio a un’immagine “austera e monumentale attribuita ai grandi personaggi del passato”, ci è quasi impossibile credere che Leopardi, nella sua corrispondenza, facesse ricorso così frequente a un turpiloquio composto da parole con la doppia zeta. È solo una delle tante sorprese che Giuseppe Antonelli, docente di Storia della lingua italiana all’università di Cassino nonché conduttore della fortunata trasmissione radiofonica La lingua batte, propone al lettore in questa agilissima antologia di riflessioni sulla lingua italiana e sui falsi miti che la affliggono. A cominciare dall’idea (infondata, sostiene l’autore) che l’italiano sia alla deriva e a proseguire con una divertentissima e sempre ottimamente documentata rassegna di osservazioni e curiosità che testimoniano l’andamento ondivago della lingua nazionale, la sua metamorfosi continua, l’impossibilità di ingabbiarla all’interno di regole fissate una volta per tutte. In questa raccolta gustosissima di aneddoti e riflessioni che poggiano con disinvoltura tanto su elementi colti quanto sulla cultura pop che tanto piace all’autore apprendiamo dunque che fino a tutti gli anni ’70 le grammatiche vietavano l’uso di “lui” e “lei” come soggetto, preferendo ad essi “egli” ed “ella”, termini che oggi appaiono desueti soprattutto nel parlato. Così come veniamo a sapere che alcune forme del congiuntivo come “dichi” e “venghi” non sono solo il frutto della comicità del ragionier Fantozzi, ma forme usate già dai padri della lingua (vadi era forma leopardiana, facci dantesca, venghi boccacciana). Il tono leggero ma mai superficiale torna a farsi accademico nelle occasioni in cui Antonelli chiosa a modo suo alcuni punti nodali come per esempio quello della punteggiatura, rispetto al quale ci ricorda che si è da tempo diffusa una “concezione ingenua della punteggiatura. Quella per cui l’interpunzione servirebbe a riproporre le pause del parlato e non – come invece è – a segnalare i legami tra le varie parti di un testo”. Ma allora: queste regole esistono o no? Il filo rosso del volume pubblicato da Mondadori contrappone costantemente la ragionevolezza delle regole con la necessità di non inamidare la lingua, lasciandola percorrere dalle suggestioni che provengono dalla società, dai passaggi delle mode (dal cioè al piuttosto che usato con funzione disgiuntiva), dalla radicale metamorfosi della funzione dei dialetti (oggi definitivamente sdoganati e non più indizio di inferiorità culturale), dall’influenza di neologismi e tecnologia. E, a proposito di tecnologia, alcune delle pagine più interessanti e divertenti sono quelle nelle quali si parla degli errori dei correttori ortografici, che finiscono inevitabilmente per segnalare il problema di chi debba correggere il correttore. Né meno divertenti sono le pagine in cui l’autore si fa beffa delle ridicolaggini di un certo purismo bacchettone – che nel Codice di autodisciplina della televisione vietò parole come vizio, membro e seno, persino in espressioni come in seno all’assemblea – o del fascismo, che nel suo tentativo di italianizzare parole come cocktail (diventato “arlecchino”) o sauté di cozze (trasformato in “sfritto”) venne turlupinato da Tullio De Mauro, il quale ipotizzò che la locuzione “Per Benito” non fosse altro che il participio passato del verbo perbenire (io perbenisco, tu perbenisci, ecc).
Se i contenuti sono costantemente frizzanti, la prosa non è da meno. Mostrando un gusto inarginabile per il calembour, l’autore infila nella sua scrittura sempre chiarissima una serie di invenzioni linguistiche frutto di una formidabile creatività: per questa strada, le regole della punteggiatura diventano un “solfeggio in quattro quarti usato da alcune grammatiche”, le abbreviazioni dello scritto – che a noi paiono un’invenzione resa necessaria da sms e Twitter ma che invece erano già diffusissime nell’Ottocento per poter risparmiare sull’invio della missiva – potevano essere accompagnate da un testo a “interlinea zero” (il riferimento è un altro, ma non importa). Con inevitabile passaggio dall’epistola all’e-pistola, con la quale si possono sparare colpi a suon d’acronimato (t.v.b.), magari in barba al solito piatto del giorno (le linguine alla norma) e con un occhio (anzi due) sull’e-taliano. E se poi qualche congiuntivo vi va di traverso, pazienza. Tanto, si sa, il congiuntivo è come il colesterolo (è sempre Antonelli che scrive): “c’è quello buono e quello cattivo”. Un’effervescenza che fremita a ogni pagina anche attraverso analogie assai creative, come quando l’autore, a proposito dei tormentoni, indica le canzoni come “una specie di carbonio 14 dei tormentoni linguistici”.
Unico neo (a parte un uso poco sorvegliato del verbo chiedere in luogo di domandare, distinzione che il linguista dovrebbe conoscere a menadito) è il metodo: torna spesso l’impressione che nel suo indomabile ottimismo Antonelli finisca per ridurre le ipotesi (linguistiche) a teorema, come quando opera confronti tra epoche diverse per dimostrare che, per esempio, non è vero che prima si scriveva bene e adesso no. Il metodologo si aspetterebbe un confronto a campione su testi di origine diversa, laddove l’autore prende tre esempi da qui e tre da là e dice: vedete? Sono uguali!
Robetta in confronto agli stimoli che un libro come questo può fornire anche ai non addetti ai lavori, per i quali il sottotitolo non potrebbe essere più veritiero: “l’italiano come non ve lo hanno mai raccontato". È proprio vero!