sabato 10 agosto 2013

Riccardo Zappa - Zapateria (fingerpicking.net, 2011)





Quando, poco dopo la metà degli anni ’70, esordì con un disco che è un autentico capolavoro (Celestion), Riccardo Zappa venne salutato da molti come “il Mike Oldfield italiano”. In un’epoca in cui la creatività musicale non veniva zavorrata dai diktat di un’industria discografica che in seguito sarebbe diventata sempre più propensa a massificare il gusto del pubblico su pochi prodotti omologati, la musica di Zappa, forte di venature progressive, incantò molti ascoltatori, al punto da poter aspirare a vendite ragguardevoli. Da allora le cose sono molto cambiate e l’autore di questo libro autobiografico, con allegati un audiolibro (la voce è di Renato Marchetti) e un cd di inediti, racconta quella lunga e difficile traiettoria che avrebbe portato lui e i musicisti come lui a essere ospitati “in alcune rassegne d’essai, più o meno come gli Indiani d’America sono ora confinati dentro alle famose riserve territoriali” (p. 64).
È una cavalcata che non segue un ordine cronologico, ma che si snoda disinvolta e con una scrittura agilissima tra riflessioni sulla musica e sulla tecnica chitarristica ma anche a margine della musica (la guerra vista “da dentro” in occasione di un concerto a Baghdad), appunti personali (l’intero volume è percorso dall’amarezza di una separazione burrascosa e da quella ancora più forte della distanza dalla figlia), aneddoti sugli esordi (le Feste dell’Unità, gli studi di conservatorio), gli incontri con musicisti come Venditti e Gaber, le lunghe tournée con Ramazzotti, la passione per Bach e i motori, il vizio del fumo.
Nel centinaio di pagine a stampa non si coglie mai un tono animoso, nonostante il senso di disillusione sia palpabile. Peccato soltanto per qualche (perdonabile) inciampo proprio sul lessico tecnico della musica (soundcheck è scritto ripetutamente soundchek, con una sola c).

mercoledì 7 agosto 2013

Stephan Baker - Il potere segreto dei matematici (Mondadori, 2010)





Ci sarebbe al massimo il materiale per un articoletto da pagine interne da pubblicare su qualche giornale in una domenica d’agosto. E invece Stephen Baker, giornalista che può vantare persino una collaborazione con il Wall Street Journal, conferma la proverbiale propensione degli americani a essere prolissi, fluviali, ipertrofici, arrivando a collezionare oltre 200 pagine di fuffa. Il concetto è questo: i nostri dati, circolando per la rete, vengono elaborati continuamente da grandi aziende che si stanno facendo largo con sempre maggiore autorevolezza. Li usano per orientare i nostri consumi, le nostre scelte politiche, le nostre malattie, i nostri bisogni affettivi quando non per scovare i terroristi. Baker chiama questi analisti “i numerati” (questo anche il titolo originale del libro), gente che lavora con i numeri e che corrisponderebbe dunque ai matematici del titolo. Peccato che focus group, network analisys, tecniche di clustering, analisi lessicometrica, data mining e tutte le altre tecniche descritte nel libro rappresentino la tipica cassetta degli attrezzi del sociologo. Possiamo capire la scelta editoriale: Il potere segreto dei sociologi non avrebbe venduto neppure una copia.
Scritto sciattamente, sfacciatamente autoreferenziale, pieno zeppo di dettagli inutili e soporiferi (sentite questa, e come questa ce ne sono altre cento: “Mi fermo al chiosco di Hank, prendo un caffè zuccherato e me lo porto in ascensore, in un grattacielo di Midtown” [p. 19]. E a me che me ne frega? Cosa aggiungi al mio sapere? E al piacere della lettura? Cosa credi? Di essere Proust?), il libro inciampa anche in alcune assurdità semantiche, come quando fa riferimento alla “attrazione gravitazionale che c’è tra me e mia moglie”. In che senso? Che quando fate la posizione del missionario lei avverte in tuo peso? Non sarebbe bastato parlare di “attrazione”? No, perché il prolisso deve metterci sempre una parola in più, sennò la brodaglia non si allunga abbastanza.
In ogni caso, chi volesse sapere le stesse cose senza doversi ruminare a fatica le 230 pagine del libro, può benissimo andarsi a vedere questo video su Youtube: è molto più esplicativo.

domenica 28 luglio 2013

Antonio Polito - Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2012)





“Con l’eccezione dei rampolli della dinastia Ming e di quelli dell’aristocrazia nella Francia prerivoluzionaria, i nostri figli sono i più viziati della storia dell’umanità”. Si apre con questa lapidaria affermazione della giornalista Elizabeth Kolbert il volume, parzialmente autoaccusatorio, di un altro giornalista, Antonio Polito, classe 1956, che alla sua generazione di padri (ma anche di madri) attribuisce la colpa di essere stata del tutto incapace di crescere adeguatamente i propri figli. Le ragioni storiche e culturali che hanno permesso questo primato in negativo vanno cercate lungo quattro direzioni di analisi: 1) il diritto al benessere, secondo cui la sua (la nostra) generazione ha trasmesso ai figli l’idea che ogni generazione avrebbe potuto godere di una prosperità maggiore di quella successiva; 2) il ruolo della contraccezione, che ha permesso di mettere al mondo soltanto figli desiderati (in concomitanza, aggiungo io, alla flessione della natalità, per cui si è trattato spesso anche di figli unici); 3) il ruolo giocato dalle filosofie consolatorie, tale per cui, a cominciare da Freud, sono state gettate le basi per una riduzione dell’etica alla psicologia (tradotto: aggredisce, ruba, stupra, va male a scuola, si droga perché papà lo trascurato); 4) il ruolo del darwinismo (a mio avviso l’argomento più debole), il quale spiegherebbe “tutti i comportamenti umani come conseguenze inevitabili della storia evolutiva della specie, e non come scelte più o meno consapevoli degli individui” (p. 27).
Questi quattro elementi hanno fatto da innesco a una considerazione della genitorialità sempre più lasca, con padri sempre più “mammi” e sempre meno capaci di giocare il ruolo parsonsiano di diaframma tra bambini e mondo. Padri che coccolano, vezzeggiano, sono perennemente schierati dalla parte dei figli, osteggiano i docenti che criticano i loro cocchini, li spronano alla competizione e alla dimensione performativa, li crescono nel consumismo più sfrenato e, peculiarità dei padri italiani (è di loro che si parla nel libro), optano per la scelta ultraconservatrice di destinarli a diventare proprietari di un appartamento. E, si sa, “una nazione di proprietari è più conservatrice e meno disposta a fare rivoluzioni” (p. 74). È anche per questo che deteniamo il record europeo di Neet (Not in education, employment or training): “più un giovane può contare su quello che gli lascerà il padre, meno si darà da fare per lavorare” (p. 95).
Molte argomentazioni presentate da Polito sono condivisibili e fanno riferimento a dati e fatti. Va però detto che sul testo aleggia un’aria fortemente conservatrice, tipica di quella sinistra arancione di cui Polito è uno dei massimi esponenti e che di sinistra non ha praticamente nulla. Basta guardare le fonti che cita: Ichino, Fornero, Treu.

mercoledì 24 luglio 2013

Giovanni Rezza - Epidemie. Origini ed evoluzione (Carocci, 2010)





Com’è possibile che organismi tanto piccoli come virus e batteri riescano imperterriti a creare flagelli così grandi e che la scienza non sia ancora riuscita a imporre barriere perentorie a quelli che rappresentano una delle maggiori minacce dell’umanità? La risposta prova a darcela, saltando dalla biologia all’epidemiologia e passando per i molti casi di rilevanza storica, Giovanni Rezza, specialista di malattie infettive che fa luce sulla determinazione evolutiva di questi microorganismi capaci di mettere ko milioni di persone.
Il loro vantaggio evolutivo – ci spiega l’autore – può apparire paradossale alla luce del fatto che l’organismo ospite nel quale si insedia può anche morire. Ecco allora che “l’evoluzione seleziona i più bravi ad assicurarsi una progenie e a farla sopravvivere; questo successo può essere misurato, per un germe, calcolando il numero di vittime infettate da ogni singolo malato” (p. 34). L’uomo poi ci ha messo del suo: lo spostamento delle popolazioni ha messo a contatto quelle che non erano mai entrate nell’orbita di determinati microbi ai quali altre sono resistenti e la globalizzazione non ha fatto che accelerare questo processo. Nei casi più gravi (dalla peste nera e la spagnola fino ai casi recentissimi di HIV, Sars, aviaria e mucca pazza), si è sempre trattato di un “salto di specie”: dai topi, i suini, le vacche e i pipistrelli all’uomo. Ma attenzione, perché, ci informa Rezza, anche le zanzare possono essere molto pericolose. Così come, a livello eziologico, molta rilevanza ha avuto anche la crescita degli agglomerati umani: prima della diffusione di grandi società stanziali, infatti “gli agenti di malattie acute […] non erano in grado di sopravvivere in piccoli gruppi di nomadi” (p. 41), i quali peraltro abbandonavano i loro escrementi da una parte all’altra e quindi non entravano ripetutamente in contatto con gli agenti batteriologici e infettivi.
Naturalmente non sono mancate le risposte da parte della scienza e non a caso vengono fatti i nomi di Pasteur, Jenner e Gallo, nonostante parrebbe che l’uomo, per via dell’impatto sull’ambiente, voglia remare contro se stesso.
L’agile saggio di Rezza cerca di condensare in un numero ridotto di pagine i tanti aspetti della questione, ma nel farlo non riesce a tenersi alla larga da una certa ridondanza e da uno stile di scrittura talvolta pedante.


domenica 9 giugno 2013

Luigi Campiglio - Tredici idee per ragionare di economia (Il Mulino, 2002)





Al neofita che volesse avventurarsi nei meandri della disciplina economica, accostando concetti come quello del saggio marginale di sostituzione, o di arbitraggio, o di tasso di interesse reale, o che magari volesse sapere come avviene il passaggio dai cambi fissi ai cambi reali o cos’è la teoria dei giochi non posso che consigliare l’ottimo saggio del professor Campiglio. Tredici idee attorno alle quali si articolano i concetti principali dell’economia politica (mercati, globalizzazione, prezzi, moneta, inflazione, produttività, ecc.) con un taglio divulgativo mai banale, esempi chiarissimi e continui riferimenti alla concretezza della contemporaneità. Se il saggio ha un neo, è quello della sua data di nascita: la stessa di quella dell’euro, con ciò che questo comporta rispetto alle previsioni che l’autore si lancia a fare in alcune occasioni. Un testo dunque raccomandabile a chiunque abbia anche soltanto voglia di un’efficacissima ripassata dei concetti, le teorie e i problemi che coinvolgono l’economia politica e la politica economica.

martedì 14 maggio 2013

Serge Latouche, Yves Cochet, Jean-Pierre Dupuy, Susan George - Dove va il mondo? Un decennio sull'orlo della catastrofe (Bollati Boringhieri, 2013)





Nel dicembre del 2010 in Francia l’Assemblée Nationale organizzò un convegno sul tema del futuro dell’umanità. Quattro relazioni di quel convegno formano l’ossatura di questo libriccino targato Bollati Boringhieri, che dice pochissimo e non aggiunge quasi nulla ai cultori del catastrofismo.
Sul tappeto ci sono i temi dell’ambiente, della crescita demografica e delle disuguaglianze. Chi già conosca le posizioni espresse nel 1973 dal Club di Roma o abbia letto Il medioevo prossimo venturo di Vacca piuttosto che Entropia di Rifkin non troverà aggiunte sensibili: basterà memorizzare l’informazione che il collasso è previsto già a partire dal 2030. I saggi di Serge Latouche e Susan George si collocano su un livello di divulgazione accettabile. Quelli di Cochet e Dupuy sono puri esercizi di stile che avvilirebbero qualsiasi lettore.

mercoledì 8 maggio 2013

Enzo Caffarelli - Dimmi come ti chiami e ti dirò perché. Storie di nomi e di cognomi (Laterza, 2013)




Da quasi vent’anni Enzo Caffarelli, noto per essere stato il destinatario di una canzone al vetriolo di Venditti (Penna a sfera) quando esercitava come critico musicale, dirige la Rivista italiana di onomastica e insegna presso l’università di Tor Vergata, a Roma. Eppure il suo libro, già a partire dal tono faceto del titolo, non ha nulla della pedanteria accademica né della boria che non di rado inquina la prosa dei cattedratici.
Dimmi come ti chiami e di dirò perché è un viaggio nel mondo dei nomi e dei cognomi italiani (con qualche brevissima sosta all’estero) abbordabile anche dal profano, tanta è la chiarezza espositiva e la brillantezza della prosa. Ricco di riferimenti al cinema, alla musica e alla letteratura, poliedrico in tutte le sue declinazioni, ironico e spiritosissimo, il libro di Caffarelli è tutt’altro che una banale strizzatina d’occhio al lettore. I tecnicismi vengono affrontati con la limpidezza del divulgatore di razza e gli aspetti statistici dell’onomastica risultano sempre commentati adeguatamente nelle loro contenute proporzioni.
Che all’autore le “storie di cognomi” interessino più di quelle dei nomi lo si arguisce dalle proporzioni: ai secondi spettano più o meno la metà delle pagine dei primi. Peccato, perché abbiamo più opportunità di imbatterci in un Francesco che in uno che di cognome faccia Giandinoto. Ciò non toglie che anche il profano venga messo nelle condizioni di capire alcuni meccanismi della formazione o dell’origine dei nomi: così tutti quelli che hanno bertha come suffisso (Alberto, Roberto, ecc.) stanno per “illustre, famoso”; quelli in hardhu (Gerardo, Leonardo, Riccardo) contengono il riferimento a forte, valoroso, duro (si pensi al termine inglese hard). E così via. La ricerca di originalità a tutti i costi, l’influenza dei nomi di personaggi famosi e i contatti sempre più prossimi con altre culture se da una parte hanno portato a un arricchimento del nostro repertorio onomastico, dall’altra hanno avuto anche conseguenze esiziali e ridicole: si pensi alle 67 variazioni di Katia (Katja, Kathya, ecc.), al padre napoletano che ha chiamato il figlio Varenne (già, proprio come il cavallo…) o all’abuso di personaggi televisivi (su tutti, il nome Ridge, dal serial Beautiful). Poi ci sono da dirimere i casi dei nomi che sono sia maschili che femminili (Andrea è il più noto e pochi ricordano che viene dal greco anèr, andròs, maschio…). Lo studioso, a proposito di nomi (ma anche di cognomi) non manca anche di sfatare qualche luogo comune del tutto infondato: non è vero, per esempio, che il repertorio di nomi personali si stia riducendo, così come non è vero che Mario Rossi è la combinazione più diffusa in Italia (il primato spetta infatti a Giuseppe Russo e persino Antonio Esposito precede Mario Rossi). La cosa più interessante riguardo ai nomi, tuttavia, concerne il loro ciclo di diffusione (mediamente tra i 120 e i 140 anni): nomi, cioè, che vanno di moda in alcuni periodi, vengono poi agganciati dalle classi sociali meno elevate, si squalificano, si massificano, vengono avvertiti come poco originali e quindi dimenticati per poi ricomparire con lunghi salti generazionali: Emma, nome oggi diffusissimo tra le bambine (lo precedono soltanto – nell’ordine – Sofia, Giulia, Sara, Martina, Giorgia, Chiara, Aurora e Alice), è sparito per un lunghissimo arco di tempo. Il declino di un nome, quando viene avvertito come troppo diffuso, «può scendere almeno quattro gradini, e sono gradini pesanti» (p. 47). Primo: diventa sinonimo di uomo e donna qualunque (Tizio e Caia hanno seguito proprio questa strada). Secondo: dà origine a voci del lessico, come nel caso di monello, che deriva da Simone. Terzo: viene applicato al mondo della natura, come nella zona del cremonese, dove Caterina è il nome della coccinella. Quarto: i nomi diventano quasi dei tabù, perché riferiti a personaggi d’invenzione, pupazzi, veicoli, eccetera. Basti pensare a Carolina, diffusissimo nell’Ottocento e poi scomparso dopo che la sua estrema popolarità lo aveva fatto associare a una mucca di plastica che veniva regalata a chi comprasse i formaggini Invernizzi. Insomma, il repertorio di analisi, dati e indicazioni di vario tipo è fittissimo: dall’età media di un nome in un preciso momento storico (ogni nome ha un età calcolabile con esattezza e pari alla media dei suoi portatori), a certe stranezze dei maschili dai femminili (e viceversa: oggi Uga e Sergia, da Ugo e Sergio, ci sembrano strani quanto lo potevano sembrare Roberta, Federica e Stefania mezzo secolo fa), alle tautologie (Eugenio Bennato, nome e cognome, vogliono dire la stessa cosa), fino ai suggerimenti sui criteri per dare nomi ai figli.
Altrettanto piene di aneddoti, esempi, dati e analisi sono le sezioni dedicate ai cognomi, dei quali, innanzitutto, si cerca di tracciare una storia. È impossibile stabilire con esattezza – sentenzia lo Caffarelli – quando sono nati esattamente i cognomi. L’abitudine latina di usare il nome delle gentes (Claudia, per esempio, da cui Appio Claudio) era ben diversa da quella che conosciamo oggi, tanto più che nel Medioevo si era completamente estinta e le persone portavano soltanto il nome. Le cose cominciarono a cambiare intorno al XIV-XV secolo: inizialmente appannaggio soltanto delle famiglie altolocate, l’uso del cognome era sostanzialmente «un affare economico e perfino politico» (p.67). Non che fosse mancato qualche caso anche prima, ma è solo tra il Cinque e il Seicento che si cominciarono a diffondere i cognomi in senso moderno. In Italia, poi, dovemmo aspettare addirittura l’istituzione del’anagrafe con l’Unità d’Italia per avere la consacrazione del cognome. Le ragioni di questa innovazione, secondo il linguista, sono sostanzialmente tre: una stabile trasmissione di generazione in generazione; l’immutabilità e la non flessibilità (la forma non cambia di numero e di genere); la non corrispondenza, quanto al significato, con la realtà del portatore: un Grassi non era necessariamente, come in passato, un ciccione e un Vaccaro non è detto che governasse le mucche.
Non che i cognomi nascessero soltanto dagli attributi: a voler cercare una regola, si potrebbe dire che quella più generale che li riguarda ha come riferimento l’inclusione e l’esclusione: si appartiene o non si appartiene a un gruppo. L’origine dei cognomi può essere fatta risalire a 8 criteri diversi: 1) il contatto con un'altra lingua, come per Macaluso (schiavo affrancato, dall’arabo); 2) il nome di un luogo (come per Salerno e Milani); 3) la corrispondenza con un aggettivo relativo a un nome di popolo (Lombardi, Calabrese); 4) cognomi che derivano «dal luogo di residenza o di lavoro interno al centro abitato o sito nei pressi di quelle località» (p. 75), come nel caso di Riva, Piazza, Fontana; 5) i cognomi derivanti da un mestiere o da un titolo onorifico (Ferrari, Nobile); 6) cognomi che derivano da un soprannome legato all’aspetto fisico (Mancini, Moretti); 7) quelli legati a comportamenti e azioni (Bevilacqua, Tagliapietra); 8) infine, quelli imposti ai bambini abbandonati, tra i quali i più noti sono Esposito (a Napoli) e Proietti (a Roma), ma che possono rimandare anche alla religiosità degli istituti d’accoglienza, come nel caso di Sperandio. Quale che sia il criterio, i più diffusi finiscono più per -o (Russo, Esposito, Romano, Colombo, Marino e Greco) che per –i (Rossi, Ferrari, Bianchi e Ricci), al contrario di quanto si pensa comunemente). I fenomeni migratori, poi, hanno contribuito a riscrivere completamente le statistiche: basti pensare che a Brescia Singh è il cognome in assoluto più diffuso, prima di Ferrari, mentre nella stessa città lombarda Kaur è terzo.
La potenza dei cognomi si estrinseca anche nella loro capacità di trasformarsi in parole nuove a servizio del lessico, come nel caso di Carpaccio e Travet.
Tutti questi esempi, dunque,m dovrebbero dare la misura di quanto il libro di Caffarelli si proponga come una commistione gustosissima di ironia (non a caso Totò – che aveva unì’enorme sensibilità linguistica – viene ripetutamente citato) e rigore scientifico, che fa di questo volume un’occasione da non perdere.

martedì 23 aprile 2013

Francesco Erbani - Roma. Il tramonto della città pubblica (2013, Laterza)



Se esiste un caso in cui la titolazione corrisponde più che mai ai contenuti e alla tesi sostenuta nel libro, è proprio quello di questo saggio scritto da Francesco Erbani, che da anni lavora per la redazione culturale de La Rapubblica.
Leggendo le quasi 200 pagine del libro scritto da questo informatissimo giornalista ci si trova davanti alla prova schiacciante di come Roma sia passata dall’essere l’emblema della rappresentanza istituzionale (in quanto capitale d’Italia, sebbene il sacco di Roma sia cominciato proprio a partire dalla breccia di Porta Pia), all’essere la città dell’affarismo più losco e bieco. Una situazione che, con l’aumentare dell’indebitamento delle casse comunali, ha progressivamente e inesorabilmente messo la città nelle mani dei palazzinari. I nomi che tornano nel documentatissimo volume di Erbani sono sempre gli stessi: Caltagirone, Toti, Mezzaroma, Ligresti. Il meccanismo è sempre il medesimo: le amministrazioni comunali sperperano sfacciatamente denaro pubblico (il caso Alemanno legato allo scandalo ATAC è paradigmatico) e poi non hanno i soldi per gestire le opere pubbliche. Allora si fanno avanti i privati, palazzinari senza scrupoli ai quali, in cambio di qualche milioncino di euro, vengono concesse metrature sempre più ampie per costruire alloggi che sono il vero paradosso di questa città. Ne è conseguito che l’urbe si è espansa a dismisura, al punto che a segnalarne lo skyline, per chi arriva da Nord, non sono più i palazzi di Fidene e Castel Giubileo, come è stato per lunghissimo tempo, bensì quelli posticci e dai nomi inequivocabili di Porta di Roma, dati in pasto ai costruttori di mega centri commerciali (dove ci sono Ikea e Leroy Merlin esiste persino una piazza privata!!) in barba a qualsiasi piano regolatore. Il che, mentre si continua a parlare di housing sociale (che nella media europea copre il 15%, con punte del 30 in Germania, mentre da noi arriva soltanto al 6%), ossia «di una via intermedia fra la casa popolare […] e la casa a libero mercato» (p. 67), produce un enorme paradosso: crescono le case e aumentano le persone senza casa, con una bolla immobiliare che assomiglia sempre più a quella che ha provocato «la più acuta e lunga crisi in epoca capitalista e che, dagli Stati Uniti alla Spagna, è stata generata proprio da un eccesso di offerta immobiliare rispetto alla domanda» (p.40). Così a Roma spetta una serie di tristi primati: quello di essere stata, nell’ultimo decennio, la città con il maggior tasso di crescita dello stock edilizio in Italia (1,4%, il doppio di quello di Milano); quella con il maggior numero di veicoli pro capite (978 veicoli a motore ogni 1000 abitanti, compresi nel calcolo i neonati e gli ultranovantenni…); la capitale europea con la più corta rete metropolitana più una serie di altri record più o meno gravi che rendono sempre meno appetibile la vita nella città eterna.
All’abuso edilizio di una città nella quale, non potendo più stampare la lira, «stampiamo metri cubi» (p. 43) e congestionata dal traffico si aggiungono tutte le storture delle amministrazioni che si sono avvicendate negli anni e che soltanto sotto la gestione di Nathan, Argan e Petroselli hanno conosciuto momenti virtuosi: progetti come quello delle 18 centralità, ossia 18 città nella città (tra Porta di Roma, Ponte di Nona, Castellaccio, Magliana), nei quali smistare ministeri e uffici pubblici (qualcosa è già stato avviato nella zona dell’Eur-Torrino) senza preoccuparsi minimamente di creare una rete adeguata di servizi intorno, in modo da far respirare un po’ il centro, che continua a vedere un continuo deflusso degli autoctoni e un corrispondente afflusso di auto: basti pensare che «intorno a via Veneto abitano non più di 4 mila persone; ce n’erano 16 mila nel 1951» (p.150), con gli immigrati (a Roma sono circa il 9% della popolazione) a occupare alloggi malridotti e residenze assistenziali o di fortuna (basti pensare alla Caritas, presso la stazione Termini, alla zona di Piazza Vittorio Emanuele II o alla comunità di S.Egidio, sita a Trastevere).
Di questa valanga di cemento gettato sulla capitale, una valanga che ha finito per divorare gran parte dell’agro laziale, è largamente corresponsabile la Protezione Civile, che ha reso possibile la gestione di un sistema «che da L’Aquila alla Maddalena, passando per i mondiali [di nuoto] del 2009 e per le opere dei 150 anni dall’Unità, controllava appalti e commissionava lavori in un vortice di corruzioni» (p.46). Un fenomeno che ha reso possibile favorire i soliti nomi e assegnare loro spazi edificabili sempre più ampi, grazie anche a meccanismi complessi come quello della compensazione. In sostanza si tratta di questo: il Comune individua un’area e dice che lì è necessario riservarla a un parco o allestirvi servizi. Ma se in quel’area c’è qualche proprietario, il Comune non può espropriarlo. Allora che fa? Gli offre qualcos’altro, magari un po’ più periferico, ma più grande. Ma se l’area che il comune vuole gestire fosse stata edificabile? E se era dichiarata non edificabile in una data epoca ma edificabile in una successiva? Il principio diventa retroattivo? La questione giuridica è spinosa ma nonostante ciò è stata spesso risolta con generose concessioni, “compensazioni”, appunto, ai proprietari originali. Che hanno continuato a costruire in periferia.
Quella che Erbani racconta è dunque la storia - ricca di testimonianze raccolte di prima mano, documenti, analisi acute – di quanto un lettore mediamente attento può trovare seguendo nel tempo la cronaca locale capitolina. Una storia di speculazioni a gogò, smantellamento del territorio, condoni edilizi elargiti con la massima disponibilità, periferie senza servizi, brutte, degradate (Tor Bella Monaca, Laurentino 38, Corviale (i quartieri di edilizia pubblica sorti fra gli anni ’70 e ’80), senza mezzi di trasporto pubblici, senza veri luoghi di raduno, non-luoghi. Il tutto raccontato con il costante contrappunto di chi questa degenerazione l’aveva avvistata da tempo, gente come Antonio Cederna e Italo Insolera.
Roma: il tramonto della città pubblica è dunque un libro che può interessare non soltanto che nella capitale ci vive, ma anche chi volesse farsi un’idea dell’affarismo palazzinaro all’italiana, che qui come altrove ha trovato nella classe politica un complice senza scrupoli. Alla faccia dei cittadini.

lunedì 8 aprile 2013

Loretta Napoleoni - Democrazia vendesi (Rizzoli, 2013)



L’enorme crisi finanziaria cominciata nel 2008 non soltanto sta allargando la forbice che divide i pochissimi ricchi dai tantissimi poveri, ma sta anche producendo lo stesso divario all’interno dei Paesi della Unione Europea, con Germania e Francia (ma persino l’Olanda) a dettare legge su quelli mediterranei, Italia, Spagna e Grecia in primis. L’economista Loretta Napoleoni argomenta dettagliatamente come la crisi del debito pubblico che viene assorbita, “comprata” dai paesi con le economie più robuste, si stia trasformando sempre di più in uno scambio impari nel quale la posta in gioco non è soltanto il denaro, ma la stessa democrazia, con la conseguenza che le decisioni prese a Berlino e Parigi vengono imposte ai governi delle periferia europea e i sacrifici ai loro cittadini. I quali non ce la fanno più. E si ammazzano. Checché ne possa dire il sociologo Marzio Barbagli (clamoroso per faziosità e alterazione del dato una sua intervista comparsa su La Repubblica), l’aumento dei suicidi dovuto alla crisi economica è talmente in ascesa «che neppure durante l’occupazione nazista in Europa […] l’indice dei suicidi è stato così alto» (p.24). L’aumento del tasso di suicidi, dunque, come sintomo di un malessere sociale diffuso ma anche indotto dalle stramberie delle politiche comunitarie. Si prenda il caso della Grecia: dopo l’incidente della Prestige (la petroliera che rovesciò greggio in mare dopo essersi incagliata nelle coste galiziane), nel 2002, e dopo che la Thatcher aveva iniziato l’opera di smantellamento dei grandi cantieri navali sui quali era prosperato l’impero britannico, vista di buon occhio dalla nascente Unione Europea intenta a smembrare l’industria pesante, agli armatori greci venne imposta, come agli altri del resto, una norma pesantissima. Nonostante ancora oggi essi siano i proprietari «del 19% della flotta mercantile mondiale» (p.56), per loro si fece obbligo del doppio scafo allo scopo di porre immediatamente rimedio ad altri eventuali disastri ecologici: la spesa per sostenere un’impresa del genere è enorme e l’industria navale greca, vero motore dell’economia di Atene, ebbe un tracollo, lasciando campo libero alle economie orientali presso le quali i vincoli normativi sono meno rigidi. Se dunque la crisi dei paesi delle periferie, come documenta il caso greco, ha un’origine connessa all’economia reale, anche il contributo dell’economia finanziaria non è da meno. Tutto ha inizio con la fine degli accordi di Bretton-Woods, voluta da Nixon nel 1971: gli accordi, cioè, che sancivano la convertibilità del dollaro con l’oro. Questo significa che quei paesi che, come l’Italia, disponevano di cospicui giacimenti aurei, vennero a trovarsi improvvisamente sprovvisti di quel potenziale finanziario al quale avrebbero potuto fare appello nei periodi di vacche magre. Ecco allora che per corre ai ripari l’anno dopo venne lanciato il primo esperimento di Unione Europea, uno stratagemma che pochi ricordano: il serpente monetario. La dizione, rammenta la Napoleoni (p. 65) - «deriva dal fatto che i tassi di cambio delle monete europee potevano fluttuare soltanto all’interno di una banda, un tunnel, la cui ampiezza era 2,5% in positivo e in negativo», che, tradotto, significava per esempio che il tasso lira-marco poteva apprezzarsi o deprezzarsi non oltre il 2,5%. Le prove generali, nemmeno a dirlo, andarono male: i paesi entravano e uscivano a piacimento dal serpentone monetario fino a quando questo non cessò di esistere nel 1979. Anche il vecchio trucco di stampare nuova moneta, aumentando al contempo l’inflazione ma contenendo la disoccupazione, cominciò a vacillare, fino a quando, con l’adesione a Eurolandia, le singole nazioni non furono del tutto espropriate della facoltà di stampare moneta, compensando in questo modo gli squilibri della bilancia commerciale.
Come l’Italia sia finita in mano a strozzini come la Merkel è una storia che parte da quei presupposti, passa largamente per le spese allegre di tutti gli anni ?80, che gonfiarono a dismisura il debito pubblico – non tenendo al tempo stesso conto, e questo la Napoleoni non lo dice, del brusco cambiamento demografico subito dalla popolazione, che avrebbe cominciato ad avere pesantissime ripercussioni nella gestione del sistema pensionistico – e arriva alla farsa della vendita del patrimonio nazionale: prima delle trovate folli di Tremonti, IRI, ENI, EFIM e SIP vengono vendute ai privati: il liberismo senza scrupoli della Thatcher e di Reagan arriva anche in casa nostra. L’inutilità di queste manovre, che non fanno altro che produrre debito sul debito – esattamente come nel caso degli usurai che pretendono gli interessi sugli interessi – non ha ottenuto altro effetto che non quello di produrre conseguenze sempre più disastrose e salassi sempre alla stessa categoria, quella dei lavoratori dipendenti, meglio se pubblici. E infatti durante il governo Monti – uno dei presidenti del consiglio peggiori e più cinici dell’intera storia repubblicana – «il debito è salito dal 120 al 126% del PIL» (p.73). Quella che l’autrice chiama “la Caporetto finanziaria” sarebbe arrivata pochi anni dopo quelle vendite sciagurate del patrimonio pubblico in nome delle liberalizzazioni e del risanamento del debito pubblico e precisamente nel 1992, quando il governo Amato varò una legge finanziaria che picconava pesantemente l’intero assetto del welfare: pensioni, ticket sanitari, tassa sul medico di famiglia, blocco degli stupendi e delle assunzioni nel pubblico impiego, prelievo forzoso dai conti correnti. Al tempo stesso Telecom, Eni ed Enel vennero privatizzate totalmente e si diede inizio anche al processo di privatizzazione della banche dello Stato. La cronistoria di quell’annus horribilis, dunque, ci fa capire come la perdita della sovranità monetaria non solo non abbia risolto il problema del debito pubblico, ma abbia al tempo stesso rafforzato la posizione dei creditori, cioè le Banche Centrali Europee. «Per uno Stato – chiarisce la Napoleoni (p. 88) – perdere la capacità di agire sulla leva monetaria è come comprare una macchina pregando che qualcuno ogni tanto ci metta la benzina, al prezzo che lui stabilisce e a suo insindacabile giudizio». Come può dunque sorprendere che in questo valzer di asservimento alle Banche Centrali gli uomini che si alternano sulle poltrone che contano siano sempre gli stessi: Draghi oggi è presidente della BCE, ma è stato vicepresidente della Goldman Sachs, in un evidentissimo conflitto di ruoli; ma non c’è solo Draghi. Ci sono Grilli, Ciampi, Prodi e Monti: tutta gente implicata, a vario titolo, sempre con gli stessi soggetti: Bilderberg e Goldman  Sachs. Come tutto questo sia potuto accadere senza che i popoli mediterranei abbiano imbracciato i forconi, l’autrice prova a spiegarcelo con una tesi audace e suggestiva: una sorta di fatalismo «che sembra accomunare tutti i paesi della periferia colonizzati dal ricco e protestante Nord, tutti cattolicissimi» (p.97: la Napoleoni sta parlando dei cosiddetti PIIGS). Sicché i paesi indebitati si sono lasciati spremere sempre con la stessa ricetta: aumento delle tasse, vendita del patrimonio pubblico e riduzione della spesa pubblica. Il problema è che l’aumento della tasse contrae l’economia, col risultato di innescare un circolo vizioso che porta a minori consumi e quindi produce meno PIL. Si potrebbero spremere i portafogli dei più ricchi, ma questi sono anche quelli meglio collegati con la casta politica e tanto basta a spiegare perché in Italia nessuno abbia mai voluto fare una vera patrimoniale. Restare dentro l’area dell’euro, dunque, sembra non ci abbia giovato granché fin dall’inizio. Quando, cioè, di fatto i prezzi assunsero l’equivalenza tra le mille lire e l’euro, mentre il secondo era circa la metà delle prime. La colpa non fu solo dei soliti commercianti truffaldini, ma dello Stato stesso che, per esempio, stabilì che la giocata minima del Lotto passasse da mille lire a un euro. In termini di potere d’acquisto – ricorda puntualmente l’autrice – «la perdita complessiva, tra il 2002 e il 2012, è stata valutata nel’ordine del 39,7%» (p. 147). Cosa fare, dunque? Continuare incessantemente a pagare l’interesse sul debito per generare altro debito? Uscire dall’euro? Suicidarsi in massa? La Napoleoni, pur adombrando la possibilità dell’uscita dall’euro come un’ipotesi meno peregrina di quanto si possa pensare e con precedenti storici assimilabili, propone una soluzione ibrida: l’introduzione dello scec, una percentuale sul prezzo, e non una moneta, a circolazione ridotta, a diffusione territoriale, già adottata in alcune zone, e che permetterebbe la restituzione progressiva del debito e, con essa, la fine di questa balorda svendita della nostra democrazia agli stati plutocrati del centro Europa.
La scrittura sempre fluida e avvincente, l’ampia mole di documentazione, i tecnicismi spiegati anche ai profani e molte intuizioni affascinanti, tra cui quella che enfatizza il nesso tra colonialismo e capitalismo mostrando il rapporto tra centro e periferia europea come una nuova e più subdola forma di colonialismo, fanno di questa specie di instant book un libro da non perdere, anche a costo di affrontare gli scogli di un linguaggio inevitabilmente tecnico ma sempre chiaro.

mercoledì 27 marzo 2013

Serge Latouche - Usa e getta. Le follie del'obsolescenza programmata (2013, Bollati Boringhieri)





Nel film Prêt à jeter, di Cosima Dannoritzer, si vede un ragazzo alle prese con una stampante che non ne vuole sapere più di funzionare. Il tipo si rivolge a un centro assistenza autorizzato, dove gli rispondono che il costo della stampante nuova è praticamente lo stesso della riparazione. Il ragazzo è testardo: cerca in rete e scopre che il problema sta in un chip “messo appositamente nella macchina per farla bloccare dopo 18.000 copie”. Il ragazzo trova un software distribuito gratuitamente sul web da un internauta russo, che annulla il contacopie della stampante e la fa ripartire. È esattamente quello che è successo a me. Ed è un episodio analogo a un altro che mi è capitato di recente. Vado dall’elettrauto e gli domando: “Scusi, ma perché la prima automobile che ho posseduto non ha mai avuto bisogno che le cambiassi la batteria? Mi bastava rabboccare la stessa con l’acqua distillata…”. E lui: “Signore, ha visto che adesso le batterie, nell’alloggio dell’acqua distillata, sono tutte sigillate? Si è mai domandato perché?”. Ecco. Questi due episodi sono esemplificativi di cosa sia l’obsolescenza programmata, ossia l’accorciamento del ciclo di vita dei prodotti, argomento centrale di questo libro snello ma densissimo e formidabile di Serge Latouche, guru della decrescita e tra i massimi sostenitori al mondo della necessità di invertire la continua sbornia di consumi che andiamo facendo da oltre un secolo a questa parte.
Insieme al credito al consumo e alla pubblicità, l’obsolescenza programmata è la base del consumo forsennato: “la pubblicità crea il desiderio di consumare, il credito ne fornisce i mezzi, l’obsolescenza programmata ne rinnova la necessità”. Va da sé che quella programmata non sia la sola forma di obsolescenza. È però quella più perversa. Le altre sono l’obsolescenza tecnica e l’obsolescenza psicologica. Quella tecnica per gran parte della storia dell’uomo è proceduta con lentezza millenaria. La si può esemplificare nel passaggio dalla diligenza alla locomotiva. Quella psicologica è la quintessenza di quella che Vance Packard chiamava la persuasione occulta: metto in circolazione l’iPhone5 e il tuo iPhone4, perfettamente funzionante, ti sembrerà obsoleto. Quella programmata, dicevo, è la più mostruosa e perversa di tutte. Giustificata dall’assunto capitalista secondo il quale l’unico modo per mantenere costante l’occupazione è quello di mantenere costante il consumo, garantendo la deperibilità degli oggetti, l’obsolescenza programmata ha mandato in pensione i concetti di durata e recupero, con le sole eccezioni dei periodi di forte recessione. Ecco allora che tra il 1940, quando Dupont de Nemours lancia una calza di nylon praticamente indistruttibile (ha una tale solidità, racconta Latouche, che “può fungere da cavo per rimorchiare un’automobile” e non si smaglia mai, e il 2003, anno della prima class action contro l’iPod della Apple, le cose sostanzialmente non sono mai cambiate. Nel caso della calza di nylon, gli ingegneri dell’azienda stessa “vennero incaricati di fragilizzare la fibra miracolosa inserendovi dei geni di mortalità”; nel secondo, l’azione legale collettiva fu sollecitata dal fatto che gli acquirenti dell’iPod si erano accorti che il loro giocattolino “aveva una batteria non riparabile programmata per durare soltanto diciotto mesi”. Pur nella difficoltà di datare con esattezza l’eclissi dell’etica del durevole a tutto vantaggio dell’obsolescenza programmata, Latouche colloca quest’inversione di rotta intorno agli anni ’30 del Novecento, mentre non ha dubbi nell’additare il paese che ne è il maggiore responsabile: gli Stati Uniti d’America. Anticipato dal fenomeno dell’adulterazione, suo strettissimo cugino che ha investito il campo dell’alimentazione, l’obsolescenza programmata è figlia legittima di qualcosa con cui liberisti e neoliberisti ci martellano la testa da decenni: la concorrenza. La concorrenza non è affatto benefica come dimostra quello che avvenne negli anni ’30, quando il modello firdista – di per sé non certo un modello di virtù, giacché era fondato sulla catena di montaggio – subì i contraccolpi della concorrenza della General Motors. Quest’ultima produceva auto molto meno affidabili, di qualità e resistenza nel tempo inferiori, ma vi aggiungeva i gadget e il colore (all’opposto, è diventata famosa la frase di Henry Ford a proposito della sua Ford T: “potete acquistarla di qualsiasi colore, purché sia nero”). Da lì in avanti, una gran parte degli oggetti che contenessero della tecnologia avrebbero dovuto osservare lo stesso diktat: ridurre il ciclo di vita del prodotto. Ecco allora che eventi come la festa organizzata nel 2001 in occasione del centesimo anno consecutivo di funzionamento di una lampadina a filamento di carbonio che “dal 1901 aveva illuminato ininterrottamente l’ingresso” della caserma dei pompieri di Livermore, in California, diventano una rarità assoluta e cedono il passo, per rimanere nello stesso ambito, a prodotti sempre più deperibili, a lampadine che si fulminano nel giro di qualche mese. È una storia che nasce ancora prima, e le cui avvisaglie iniziali si possono rintracciare nel 1872, anno in cui in America si producevano 150 milioni di colli e polsini di camicia non lavabili. La “colpa”, però, non era tutta degli americani: gran parte degli immigrati europei erano uomini scapoli che non avevano alcuna consuetudine con lavaggio e stiraggio. La storia continuava con Gillette che inventò il rasoio usa e getta, Lasker che nel 1924 lanciò i kleenex, concepiti inizialmente per esaurire le scorte di cellulosa prodotta durante la prima guerra mondiale; dieci anni più tardi arrivarono i Tampax. Tutti questi eventi costituiscono soltanto la prima delle 5 fasi che Latouche individua nella marcia trionfale dell’obsolescenza programmata. La seconda è, appunto, il cosiddetto “modello Detroit” (la città delle automobili per eccellenza), con la fine del monopolio della Ford, a cui segue l’obsolescenza programmata propriamente detta, l’avvento della data di deperimento ovvero “il trionfo del nuovo usa e getta e infine l’obsolescenza alimentare”. Rispetto a queste ultime due, vale la pena di ricordare, per quanto riguarda la seconda ondata di usa e getta, l’invenzione della Motorola, negli anni ‘50, della prima radiolina che non poteva essere riparata. Per ciò che attiene all’obsolescenza alimentare, basterebbe l’abbandono della pratica della restituzione dei vuoti e la diffusione sempre più massiccia di prodotti i cui contenitori devono essere buttati (la massima perversione, a mio avviso, è l’insalata già tagliata e venduta in busta: gli acquirenti di quei prodotti andrebbero incriminati e processati per direttissima perché sono la quintessenza del cretino, stando alla definizione di Carlo Maria Cipolla: oltre a danneggiare gli altri, l’ambiente, danneggiano anche loro stessi a causa del microclima insalubre che si crea all’interno della busta, dove proliferano batteri a gogo) per averne un qualche sentore. Latouche ci ricorda anche del fenomeno sempre più diffuso del dardanismo, che – al di là del nome dotto – altro non è che una forma “di distruzione su vasta scala delle derrate alimentari”.
Tutto questo non pone soltanto serissimi problemi ambientali, economici e sociali, ma anche etici. Scomparso pressoché del tutto il “capitalismo buono” (un ossimoro?), gli uomini d’affari di oggi e i loro lacchè hanno una sola ragion d’essere: trarre il massimo profitto dall’ampliamento della domanda. “Come la morale di Eichmann, che consisteva nell’eseguire senza discutere le istruzioni provenienti dall’organizzazione – ci ricorda Latouche – la religione del profitto è la porta spalancata su quella che Hannah Arendt chiamava la banalità del male. Ma come difendersi da tutto ciò? È chiaro che la lotta tra produttori e consumatori è impari: troppo possente la capacità di seduzione dei primi sui secondi, troppo difficile riuscire ad avviarsi verso quella “abbondanza frugale” (un altro ossimoro) che però è l’unica via di uscita a una situazione che non lascia scampo alla fine delle risorse naturali. L’industria dovrà dunque abbandonare progressivamente l’obsolescenza programmata incorporata nei prodotti, ma al tempo stesso sarà necessario che i consumatori comincino a transitare – come suggeriva anche Rifkin ne L’era dell’accesso – verso beni condivisi. Ma il vero punto chiave – come avevo già ricordato recensendo Lareligione dei consumi di Ritzer – è la decolonizzazione dell’immaginario e il reincantamento del mondo: soltanto quando ci saremo liberati dell’ideologia dell’usa e getta e dell’accumulo seriale di beni forse potremo sentirci davvero più felici e liberi.

giovedì 21 marzo 2013

Piero Sansonetti - La sinistra è di destra (2013, Bur)





Che il rosso, in Italia, si sia stinto e sia diventato rosa, annacquato com’è di elementi ex democristiani (Prodi, Bindi, Binetti, Renzi, solo per fermarci ai più clamorosi), se n’erano accorti in tanti. Ma che potesse virare sul nero speravamo proprio che non accadesse mai, anche se le avvisaglie c’erano da tempo. A voler spremere il succo dell’avvincente libro di Piero Sansonetti, per anni tra le firme di maggior prestigio de L’Unità, direi che la svolta a destra della sinistra si dipana su quattro assi: le politiche sul lavoro, l’infrazione del tabù della guerra, il giustizialismo e il neoliberismo. Tutti elementi che, così come vengono declinati da una ventina d’anni a questa parte, sono storicamente appartenuti alla destra più tradizionalista.
Se il PCI è stato per decenni il partito dei lavoratori, quello che ne difendeva lo statuto e che si opponeva all’abolizione della scala mobile, dopo la mutazione cromosomica avvenuta all’indomani della caduta del muro di Berlino, la sinistra che ne ha ereditato il testimone ha aperto la strada al precariato, con l’ignobile legge Treu e poi con l’appoggio a una serie di riforme (o di proposte di riforma) che portavano le firme di gente come Marco Biagi e Piero Ichino.
Quanto alla guerra, gli stessi ragazzotti che alla fine degli anni ’60 andavano a manifestare in piazza per il Vietnam, dopo quasi una trentina d’anni avrebbero contribuito a contrabbandare per “missione di pace” la guerra in Kosovo, alla faccia dell’articolo 11 della Costituzione. Era il 1999 e al governo c’era Massimo D’Alema.
Ma gli elementi più rilevanti sui quali si sofferma Sansonetti sono i rimanenti due: il neoliberismo e il giustizialismo. Il primo si è sostanzialmente estrinsecato in una metamorfosi del riformismo da “tendenza economica che punta a ottenere delle leggi che cambino i rapporti economici e di potere a favore dei ceti meno abbienti” a una concezione “che pone al vertice dell’interesse generale l’interesse della produzione, dell’impresa e della competitività”. E qui la sinistra, tra lacerazioni interne e perdita d’identità, ha finito col sovrapporsi al modello berlusconiano, pur continuando a nutrirsi di antiberlusconismo per quasi vent’anni. C’è un passaggio illuminante, nel libro di Sansonetti, che spiega questo aspetto. Lo riporto per intero: “il berlusconismo distrugge l’egualitarismo, distrugge la certezza dei diritti collettivi, attacca i diritti dei lavoratori, mette in discussione la necessità di un equilibrio tra ricchi e poveri e poi esalta la ricchezza, esalta la concorrenza, esalta il guadagno, il successo, il profitto e impone a tutti – anche a sinistra – due valori assoluti, che non esistevano nella prima Repubblica: la competitiva e la meritocrazia”. Ecco allora che è proprio quella sinistra annacquata di cui parlavo all’inizio che si prende l’incarico di sdoganare la precarizzazione, le liberalizzazioni a gogo, la riduzione delle pensioni, le oscene norme sull’immigrazione (il reato di clandestinità fu introdotto da due anime belle della “sinistra”: Livia Turco e Giorgio Napolitano).
L’ultimo elemento che ha segnato la svolta a destra di una sinistra che rischia ormai di estinguersi dal panorama parlamentare non solo italiano, ma forse addirittura mondiale (se consideriamo che uno come Blair, che per anni non ha fatto che portare avanti una versione edulcorata del tatcherismo, è stato l’alfiere della sinistra europea, c’è poco da stare allegri) è il giustizialismo, il connubio sempre più stretto con la magistratura, la propensione forcaiola e legalitaria. “La legge e il legalitarismo – che sono sempre stati concetti e bandiere della destra – diventano la bussola del nuovo riformino morale”. L’ispiratore di questo giustizialismo di sinistra è stato in gran parte, a sentire Sansonetti, Eugenio Scalfari, al quale l’ex condirettore de L’Unità dedica pagine e pagine, aprendo uno squarcio dal di dentro per mostrarci l’infittirsi dei rapporti tra politica e stampa e sul tentativo di quest’ultima di stabilire progressivamente un vero e proprio contropotere, o di proporsi comunque come elemento capace di dinamizzare ulteriormente l’agone democratico. Scalfari non è l’unico nome che esce, almeno nella percezione che ne avevo precedentemente, fortemente ridimensionato, malato com’è di protagonismo e di quella boria da intellettuale ultraborghese e liberale che la sa sempre più lunga degli altri. Anche Veltroni viene ripetutamente criticato (e non solo per la gestione culturale de L’Unità, passata dall’allegare i libri sulla storia dell’Unione Sovietica agli album delle figurine Panini…), così come Prodi, per non parlare di gente come Napolitano o Renzi, che con la sinistra c’entrano praticamente nulla, esponenti di uno stalinismo d’antan per il quale conta soltanto il raggiungimento del potere, non le idee o l’egalitarismo. Al contrario, la figura di Craxi sembra avere anche qualche luce nella prospettiva che ne offre Sansonetti, e non soltanto le ombre dei tempi di Tangentopoli, e Bertinotti non è stato quell’assassino di governi rossi che buona parte della stampa ha voluto farci credere.
La sinistra è di destra è dunque un libro che merita senza alcun dubbio la lettura, nonostante qualche vezzo di troppo dell’autore (peraltro tipico della collana della BUR che lascia ampio spazio ai personalismi), soprattutto per la lucidità e chiarezza d’analisi, la capacità di interpretazione storica, la scorrevolezza della prosa.







domenica 17 marzo 2013

Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini - Il partito di Grillo (Il Mulino, 2013)





Se stiamo alla definizione politologica data da un guru come Sartori, secondo cui per partito si può intendere “qualsiasi gruppo politico identificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche”, ecco che subito il titolo di questa interessante analisi proposta da due eminenti studiosi dell’università di Bologna, Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini, risulta meno provocatorio di quanto non possa apparire a prima vista. Già, perché Grillo ha ripetutamente dichiarato che “i partiti sono morti” e considerare la sua creatura, nata tra il 2005 e il 2009, un partito stride con i suoi moniti. Il tentativo dei due autori, che non sono gli unici estensori dei diversi capitoli, è quello di analizzare in una chiave politologica e sociologica il fenomeno del Movimento 5 Stelle, sfrondando il campo da qualsiasi pregiudizio, ricostruendone la traiettoria storica e ponendo alcune domande chiave: da dove vengono gli elettori del Movimento? È vero che hanno un così forte legame col web? Di quale natura è il populismo di Grillo?
Ecco allora che nelle oltre 200 pagine di analisi si dà conto del percorso personale che ha portato Grillo ad avvicinarsi alla politica, in continuità con un approccio legato soprattutto alla dimensione ecologica; ma si ricostruiscono anche le tappe fondamentali per la genesi del movimento: dalla nascita del blog www.beppegrillo.it, nel 2005, ai meetup dello stesso anno, e poi le prime liste civiche formate nel 2007, fino al V-day del 2009 e al grande successo alle elezioni amministrative del 2012, con la “presa” di Parma e della Sicilia, oltre che di tante altre realtà locali minori. Già dal quadro storico emerge un elemento che farà da filo rosso in tutta la (breve) storia del Movimento e che costituirà uno degli elementi più problematici per il futuro dello stesso: il rapporto molto stretto con il territorio (le stesse 5 stelle a cui fa riferimento il M5S – acqua, ambiente, sviluppo, trasporti, connettività – sono strettamente intrecciate con il territorio) è la spia di una visione che richiederà un salto di qualità per poter passare a una dimensione globale e nazionale, che travalichi la realtà locali.
Quanto all’elettorato, l’analisi dei flussi proposta dagli autori de Il partito di Grillo mostra che su 100 elettori del M5S, “il 46% proviene dall’area del centrosinistra, il 40% dall’area del centrodestra, il 14% dall’area di astensione” (p. 107): il che è una delle prove della trasversalità del Movimento rispetto all’asse destra-sinistra, ulteriormente amplificata dal fatto che, in sede di intervista, gli autori hanno dimostrato che, a confronto di tutti gli altri elettorati, i votanti del M5S sono quelli che si distribuiscono in maniera più difforme rispetto all’asse destra-sinistra e che sono meno inclini a riconoscere la fondatezza di queste categorie, come d’altronde ha anche dimostrato la loro collocazione in parlamento.
Quanto al legame col web, i dati a disposizione dell’Istituto Cattaneo, che ha mosso i fili della ricerca, dimostrano che, sì, il legame c’è ed è forte, ma non presenta un divario abissale col resto dell’elettorato.
La questione sviscerata nella maniera più convincente, sebbene con argomentazioni tutt’altro che causidiche nonostante l’assenza di dati, riguarda il problema del populismo. Il quale, ci spiegano i due autori citando un noto studio di Mény e Surel, può essere di tre tipi: politico (il popolo sovrano); socioeconomico (il popolo-classe) e culturale (il popolo-nazione). Sono tutte torme manichee (Tarchi, 2003) che si declinano secondo le dicotomie popolo vs. elite (il primo), potere vs. esclusi dai meccanismi socioeconomici (il secondo), noi vs. loro (il terzo, caso paradigmatico della Lega e dell’invenzione della Padania per conferire identità culturale e un movimento che annaspa nel nulla). La risposta degli autori è icastica: se esiste un appello populista nel messaggio politico di Grillo, questo è nel primo dei tre tipi e solo in quello (p. 202). Il populismo è una sindrome, come l’ha definita Wiles (1969), che nasce sempre come una reazione a una malattia, cioè a uno stato di crisi della democrazia. Ed è su quello che germogliano i populismi: sul vuoto che si viene a creare ogni volta che una democrazia va in crisi. È ciò che è accaduto con il fronte dell’Uomo qualunque all’indomani della fine del fascismo e con Forza Italia (e in parte con la Lega Nord) alla fine della Prima Repubblica. Per sua stessa natura, il populismo ha bisogno di un leader carismatico che faccia da megafono (l’immagine più volte evocata dallo stesso Grillo) ai propri accoliti. Il problema, ora che il M5S è entrato in parlamento, è quello di vedere come riuscirà a traghettare se stesso dalla fase di movimento a quella di istituzione, considerando che la legge ferrea dell’oligarchia, formulata nel 1911 dal sociologo Robert Michels, è sempre nascosta insidiosamente dietro l’angolo.



venerdì 22 febbraio 2013

Stefania leone - Stili di vita. Un approccio multidimensionale (Aracne, 2005)



Libro rivolto agli specialisti del settore, il testo della Leone è un interessante tentativo di proporre una lettura dei consumi in due contesti diversi (i lettori di quotidiani e i consumatori di mozzarella di bufala) seguendo lo stesso modello. Modello che si incardina, come suggerisce il sottotitolo, su tre direttrici: i profili valoriali e comportamentali; le motivazioni d’uso e le caratteristiche desiderate del prodotto. Si sarà già capito che si tratta di un testo che fa il gioco degli esperti di marketing (le conclusioni, in questo senso, non lasciano dubbi) e che riconduce il concetto di stile di vita sostanzialmente a quello di stile di consumo.
Il modello analitico nei due casi presentati è lo stesso: analisi fattoriale e clusterizzazione. Lascia qualche dubbio l’esiguità del campione in entrambe le ricerche.


mercoledì 20 febbraio 2013

Maria Paola Faggiano - Stile di vita e partecipazione sociale giovanile. Il circolo virtuoso teoria-ricerca-teoria (Franco Angeli, 2007)





Testo per specialisti (gli altri si astengano), il lavoro di Maria Paola Faggiano è una documentata e rigorosa analisi che ha consentito all’autrice di mostrare come si possa pervenire a una definizione operativa del concetto di stile di vita, i cui confini sono quanto mai porosi, attraverso una serrata disamina della letteratura metodologico-empirica che si occupa dell’argomento.
A chi è interessato al tema degli stili di vita, che personalmente non considero altro che il grimaldello intellettualizzato per accedere ai diversi segmenti di consumatori, il libro tornerà senz’altro utile. Il lettore motivato va però avvertito che si troverà di fronte a liste interminabili, definizioni che rasentano la pedanteria, note in corpo Cossutta: il tutto a sostegno del progetto, ambizioso e riuscito, di mettere in relazione biunivoca teoria e ricerca. Con la regia, palpabilissima nello stile argomentativo e nel succedersi dei paragrafi, di Stella Agnoli.

sabato 9 febbraio 2013

Paolo Sollier con Paolo La Bua - Spogliatoio (Kaos, 2008)





Calci e sputi e colpi di testa, le “riflessioni autobiografiche di un calciatore per caso” fu il libro fondamentale della mia adolescenza. A scriverlo fu Paolo Sollier, calciatore del Perugia per una sola stagione in serie A con la squadra umbra, per poi fare le valigie, destinazione Rimini. Quel libro, al di là della prosa accattivante che mai ti sogneresti di trovare in un mezzo divo della pedata, conteneva riflessioni a tutto campo sul calcio, certo, ma anche sull’amicizia, l’amore, il sesso, i viaggi, il cameratismo tra compagni e, forse più di tutti, la politica.
7 lustri più tardi sono passato a leggere l’opera seconda di Paolo Sollier, che, con molti capelli in meno ma lo stesso spirito barricadero di allora, è da anni transitato al ruolo di allenatore di squadre giovanili in promozione. Ho scoperto così di avere percorso con uno dei miti della mia adolescenza una sorta di cammino parallelo, come se certi valori – la furia iconoclasta con cui si dirige a testa bassa contro le convenzioni sociali più viete e la libertà da certi modelli posticci – fossero stati scritti nel suo, come nel mio, DNA.
Il libro è redatto sotto forma di intervista, con qualche foto d’archivio a cadenzare la scansione dei capitoli, nella quale Sollier, partendo dal calcio, ancora una volta si esprime con invidiabile profondità e indipendenza di pensiero, sciorina aneddoti divertentissimi, inventa trovate linguistiche sempre originali (sentite questa: quando parla di un campo di calcio nel quale andava a giocare quando era al Cinzano scrive che «ci sembrava di bestemmiarne la perfezione stuprandolo di tacchetti»).
Da queste pagine emerge chiaramente il disagio per un calcio ormai diventato business a tutti gli effetti, nel quale le famiglie investono sui figli fin da quando sono piccoli sperando di trasformarli in re Mida miniaturizzati: tutto il contrario di quanto accadeva fino agli anni sessanta e settanta, quando per lo più si diventava giocatori per caso se qualche talent scout passava a vederti giocare all’oratorio. Sarà per questo che il mio amico (amico?) Marco Ginesi, che non ha nulla da invidiare a certi presunti assi della serie A, ha fatto il commercialista anziché il calciatore: gli è mancato l’incontro giusto.
Gli anni di Sollier professionista del calcio giocato erano anche gli anni in cui una squadra di provincia ben gestita poteva permettersi di arrivare ai primi posti in classifica: accadde al Bologna, al Cagliari, ma anche al Lanerossi Vicenza e allo stesso Perugia, un paio di stagioni dopo la cessione di Sollier. Altro che i 17 anni di fila durante i quali lo scudetto è andato solo alle "imprese" Milan e Juventus (con le uniche eccezioni di Lazio e Roma, vincenti nell’anno in cui sono state titolate in borsa…). E poi il calcio non era ancora stato fagocitato dalla televisioni, i calciatori non erano contagiati dal divismo, la legge Bosman era ancora di là da venire e i numeri sulla maglie indicavano il ruolo e non le fissazioni cabalistiche dei calciatori: altro che il numero 45 di Balotelli!
In Spogliatoio si parla anche di molto altro: dell'avventura di Sollier sulle frequenze radiofoniche di Radio Rosa Giovanna, a Rimini, della sua brevissima esperienza con l’LSD, in un’epoca in cui la militanza politica non di rado si coniugava con quella delle sostanze psicotrope, di come l’appartenenza politica a destra venga spesso coltivata in curva e non viceversa, di quando prima Michele Placido e poi Gianni Amelio avrebbero voluto trarre un film da Calci e sputi…, dell’educazione libertaria e paritaria ricevuta con congruo anticipo dai genitori, quando ancora durante il ’68 vigeva un certo machismo per cui “se non la davi via” venivi tacciata di frigidità, della sua attività di libraio, dell’amore per i viaggi, la musica e la montagna, della nazionale scrittori, dove ha giocato e gioca con Baricco e Carlo D’Amicis, dell’amicizia con Gianmaria Testa (guardatevi questo video).
Il ritratto, dunque, di un uomo libero, autarchico, indipendente, miscredente, che non si è mai sposato né ha mai voluto avere figli, che non ha mai indossato la cravatta e che da quarant’anni non va a un matrimonio. Uno che, come dice lui stesso, si è perso tante volte, ma alla fine ha sempre ritrovato la strada.

venerdì 8 febbraio 2013

Giampaolo Fabris - La società post-crescita (Egea, 2010)





Mi ero accostato a questo ponderoso tomo di Fabris tratto in inganno dal sottotitolo: “consumi e stili di vita”. Volevo leggerlo per poi eventualmente considerare l’ipotesi di proporlo come testo d’esame ai miei studenti. Di “stlili di vita” neppure l’ombra. Mi sono imbattuto invece nell’ennesimo sproloquio logorroico di questo accademico col papillon (facile accostarlo a Roberto Gervaso) che per pagine e pagine ci avverte: i baccanali del consumo di massa sono finiti ma, al tempo stesso, non è il caso di accostarsi a un consumerismo pauperista à la Latouche, bensì occorre imboccare una terza via. Quale sia, questa terza via, non sono riuscito a capirlo dopo le oltre 400 pagine di pura uggia. Sì, certo, si fa riferimento ai gruppi di acquisto solidale, al consumatore scafato e responsabile che acquista su ebay e cerca il chilometro zero, all’eclissarsi della falsa equivalenza tra ben-avere e ben-essere, alla customer satisfaction. Il tutto è però imbrigliato in pagine e pagine di concetti ridondanti, di virtuosismi linguistici, di acrobazie concettuali posticce (insopportabili quelle in cui sembra la dimensione esplicativa a servizio della trovata linguistica e non viceversa, come nel caso della tipologia consumato-re, consum-attore, consum-autore, con-sumatore) dalle quali trabocca l’ego incontenibile da vecchio trombone della cattedra che a ogni capitolo ci ricorda le tante occasioni in cui è stato a contatto con “quelli che contano” e che non rinuncia a vezzi come quello di chiamare Petrini, quello di Slow-Food, “Carlin”, così, confidenzialmente, come se il lettore stesse lì ad assistere a un pranzo tra vecchie cariatidi della sinistra più salottiera.
Dispiace scrivere tutto questo, perché il professor Fabris è morto nel 2010 e ci ha lasciato contributi significativi sul fenomeno del consumo, ma a ogni libro sembra volerci ricordare il suo straripante amore per se stesso, che lo fa sembrare tantissimo l’Albertazzi della sociologia.