Da quasi vent’anni Enzo
Caffarelli, noto per essere stato il destinatario di una canzone al vetriolo di
Venditti (Penna a sfera) quando esercitava come critico musicale, dirige
la Rivista italiana di onomastica e insegna presso l’università di Tor Vergata,
a Roma. Eppure il suo libro, già a partire dal tono faceto del titolo, non ha
nulla della pedanteria accademica né della boria che non di rado inquina la
prosa dei cattedratici.
Dimmi come ti chiami e di dirò
perché è un viaggio nel mondo dei nomi e dei cognomi italiani (con qualche
brevissima sosta all’estero) abbordabile anche dal profano, tanta è la
chiarezza espositiva e la brillantezza della prosa. Ricco di riferimenti al
cinema, alla musica e alla letteratura, poliedrico in tutte le sue declinazioni,
ironico e spiritosissimo, il libro di Caffarelli è tutt’altro che una banale strizzatina
d’occhio al lettore. I tecnicismi vengono affrontati con la limpidezza del
divulgatore di razza e gli aspetti statistici dell’onomastica risultano sempre
commentati adeguatamente nelle loro contenute proporzioni.
Che all’autore le “storie di
cognomi” interessino più di quelle dei nomi lo si arguisce dalle proporzioni:
ai secondi spettano più o meno la metà delle pagine dei primi. Peccato, perché
abbiamo più opportunità di imbatterci in un Francesco che in uno che di
cognome faccia Giandinoto. Ciò non toglie che anche il profano venga
messo nelle condizioni di capire alcuni meccanismi della formazione o
dell’origine dei nomi: così tutti quelli che hanno bertha come suffisso
(Alberto, Roberto, ecc.) stanno per “illustre, famoso”; quelli in hardhu
(Gerardo, Leonardo, Riccardo) contengono il riferimento a forte,
valoroso, duro (si pensi al termine inglese hard). E così via. La
ricerca di originalità a tutti i costi, l’influenza dei nomi di personaggi
famosi e i contatti sempre più prossimi con altre culture se da una parte hanno
portato a un arricchimento del nostro repertorio onomastico, dall’altra hanno
avuto anche conseguenze esiziali e ridicole: si pensi alle 67 variazioni di Katia
(Katja, Kathya, ecc.), al padre napoletano che ha chiamato il figlio Varenne
(già, proprio come il cavallo…) o all’abuso di personaggi televisivi (su tutti,
il nome Ridge, dal serial Beautiful). Poi ci sono da dirimere i
casi dei nomi che sono sia maschili che femminili (Andrea è il più noto
e pochi ricordano che viene dal greco anèr, andròs, maschio…). Lo
studioso, a proposito di nomi (ma anche di cognomi) non manca anche di sfatare
qualche luogo comune del tutto infondato: non è vero, per esempio, che il repertorio
di nomi personali si stia riducendo, così come non è vero che Mario Rossi
è la combinazione più diffusa in Italia (il primato spetta infatti a Giuseppe
Russo e persino Antonio Esposito precede Mario Rossi). La
cosa più interessante riguardo ai nomi, tuttavia, concerne il loro ciclo di
diffusione (mediamente tra i 120 e i 140 anni): nomi, cioè, che vanno di moda
in alcuni periodi, vengono poi agganciati dalle classi sociali meno elevate, si
squalificano, si massificano, vengono avvertiti come poco originali e quindi
dimenticati per poi ricomparire con lunghi salti generazionali: Emma,
nome oggi diffusissimo tra le bambine (lo precedono soltanto – nell’ordine – Sofia,
Giulia, Sara, Martina, Giorgia, Chiara, Aurora e Alice), è sparito
per un lunghissimo arco di tempo. Il declino di un nome, quando viene avvertito
come troppo diffuso, «può scendere almeno quattro gradini, e sono gradini
pesanti» (p. 47). Primo: diventa sinonimo di uomo e donna qualunque (Tizio
e Caia hanno seguito proprio questa strada). Secondo: dà origine a voci
del lessico, come nel caso di monello, che deriva da Simone.
Terzo: viene applicato al mondo della natura, come nella zona del cremonese,
dove Caterina è il nome della coccinella. Quarto: i nomi
diventano quasi dei tabù, perché riferiti a personaggi d’invenzione, pupazzi,
veicoli, eccetera. Basti pensare a Carolina, diffusissimo nell’Ottocento
e poi scomparso dopo che la sua estrema popolarità lo aveva fatto associare a
una mucca di plastica che veniva regalata a chi comprasse i formaggini Invernizzi.
Insomma, il repertorio di analisi, dati e indicazioni di vario tipo è
fittissimo: dall’età media di un nome in un preciso momento storico (ogni nome
ha un età calcolabile con esattezza e pari alla media dei suoi portatori), a
certe stranezze dei maschili dai femminili (e viceversa: oggi Uga e Sergia,
da Ugo e Sergio, ci sembrano strani quanto lo potevano sembrare Roberta,
Federica e Stefania mezzo secolo fa), alle tautologie (Eugenio
Bennato, nome e cognome, vogliono dire la stessa cosa), fino ai
suggerimenti sui criteri per dare nomi ai figli.
Altrettanto piene di aneddoti,
esempi, dati e analisi sono le sezioni dedicate ai cognomi, dei quali,
innanzitutto, si cerca di tracciare una storia. È impossibile stabilire con
esattezza – sentenzia lo Caffarelli – quando sono nati esattamente i cognomi.
L’abitudine latina di usare il nome delle gentes (Claudia, per
esempio, da cui Appio Claudio) era ben diversa da quella che conosciamo
oggi, tanto più che nel Medioevo si era completamente estinta e le persone
portavano soltanto il nome. Le cose cominciarono a cambiare intorno al XIV-XV
secolo: inizialmente appannaggio soltanto delle famiglie altolocate, l’uso del
cognome era sostanzialmente «un affare economico e perfino politico» (p.67). Non
che fosse mancato qualche caso anche prima, ma è solo tra il Cinque e il Seicento
che si cominciarono a diffondere i cognomi in senso moderno. In Italia, poi,
dovemmo aspettare addirittura l’istituzione del’anagrafe con l’Unità d’Italia per
avere la consacrazione del cognome. Le ragioni di questa innovazione, secondo il
linguista, sono sostanzialmente tre: una stabile trasmissione di generazione in
generazione; l’immutabilità e la non flessibilità (la forma non cambia di
numero e di genere); la non corrispondenza, quanto al significato, con la
realtà del portatore: un Grassi non era necessariamente, come in
passato, un ciccione e un Vaccaro non è detto che governasse le mucche.
Non che i cognomi nascessero
soltanto dagli attributi: a voler cercare una regola, si potrebbe dire che quella
più generale che li riguarda ha come riferimento l’inclusione e l’esclusione:
si appartiene o non si appartiene a un gruppo. L’origine dei cognomi può essere
fatta risalire a 8 criteri diversi: 1) il contatto con un'altra lingua, come
per Macaluso (schiavo affrancato, dall’arabo); 2) il nome di un luogo
(come per Salerno e Milani); 3) la corrispondenza con un
aggettivo relativo a un nome di popolo (Lombardi, Calabrese); 4)
cognomi che derivano «dal luogo di residenza o di lavoro interno al centro
abitato o sito nei pressi di quelle località» (p. 75), come nel caso di Riva,
Piazza, Fontana; 5) i cognomi derivanti da un mestiere o da un
titolo onorifico (Ferrari, Nobile); 6) cognomi che derivano da un
soprannome legato all’aspetto fisico (Mancini, Moretti); 7)
quelli legati a comportamenti e azioni (Bevilacqua, Tagliapietra);
8) infine, quelli imposti ai bambini abbandonati, tra i quali i più noti sono Esposito
(a Napoli) e Proietti (a Roma), ma che possono rimandare anche alla
religiosità degli istituti d’accoglienza, come nel caso di Sperandio.
Quale che sia il criterio, i più diffusi finiscono più per -o (Russo, Esposito,
Romano, Colombo, Marino e Greco) che per –i (Rossi,
Ferrari, Bianchi e Ricci), al contrario di quanto si pensa comunemente).
I fenomeni migratori, poi, hanno contribuito a riscrivere completamente le
statistiche: basti pensare che a Brescia Singh è il cognome in assoluto
più diffuso, prima di Ferrari, mentre nella stessa città lombarda Kaur
è terzo.
La potenza dei cognomi si estrinseca
anche nella loro capacità di trasformarsi in parole nuove a servizio del
lessico, come nel caso di Carpaccio e Travet.
Tutti questi esempi, dunque,m
dovrebbero dare la misura di quanto il libro di Caffarelli si proponga come una
commistione gustosissima di ironia (non a caso Totò – che aveva unì’enorme
sensibilità linguistica – viene ripetutamente citato) e rigore scientifico, che
fa di questo volume un’occasione da non perdere.