martedì 14 maggio 2013

Serge Latouche, Yves Cochet, Jean-Pierre Dupuy, Susan George - Dove va il mondo? Un decennio sull'orlo della catastrofe (Bollati Boringhieri, 2013)





Nel dicembre del 2010 in Francia l’Assemblée Nationale organizzò un convegno sul tema del futuro dell’umanità. Quattro relazioni di quel convegno formano l’ossatura di questo libriccino targato Bollati Boringhieri, che dice pochissimo e non aggiunge quasi nulla ai cultori del catastrofismo.
Sul tappeto ci sono i temi dell’ambiente, della crescita demografica e delle disuguaglianze. Chi già conosca le posizioni espresse nel 1973 dal Club di Roma o abbia letto Il medioevo prossimo venturo di Vacca piuttosto che Entropia di Rifkin non troverà aggiunte sensibili: basterà memorizzare l’informazione che il collasso è previsto già a partire dal 2030. I saggi di Serge Latouche e Susan George si collocano su un livello di divulgazione accettabile. Quelli di Cochet e Dupuy sono puri esercizi di stile che avvilirebbero qualsiasi lettore.

mercoledì 8 maggio 2013

Enzo Caffarelli - Dimmi come ti chiami e ti dirò perché. Storie di nomi e di cognomi (Laterza, 2013)




Da quasi vent’anni Enzo Caffarelli, noto per essere stato il destinatario di una canzone al vetriolo di Venditti (Penna a sfera) quando esercitava come critico musicale, dirige la Rivista italiana di onomastica e insegna presso l’università di Tor Vergata, a Roma. Eppure il suo libro, già a partire dal tono faceto del titolo, non ha nulla della pedanteria accademica né della boria che non di rado inquina la prosa dei cattedratici.
Dimmi come ti chiami e di dirò perché è un viaggio nel mondo dei nomi e dei cognomi italiani (con qualche brevissima sosta all’estero) abbordabile anche dal profano, tanta è la chiarezza espositiva e la brillantezza della prosa. Ricco di riferimenti al cinema, alla musica e alla letteratura, poliedrico in tutte le sue declinazioni, ironico e spiritosissimo, il libro di Caffarelli è tutt’altro che una banale strizzatina d’occhio al lettore. I tecnicismi vengono affrontati con la limpidezza del divulgatore di razza e gli aspetti statistici dell’onomastica risultano sempre commentati adeguatamente nelle loro contenute proporzioni.
Che all’autore le “storie di cognomi” interessino più di quelle dei nomi lo si arguisce dalle proporzioni: ai secondi spettano più o meno la metà delle pagine dei primi. Peccato, perché abbiamo più opportunità di imbatterci in un Francesco che in uno che di cognome faccia Giandinoto. Ciò non toglie che anche il profano venga messo nelle condizioni di capire alcuni meccanismi della formazione o dell’origine dei nomi: così tutti quelli che hanno bertha come suffisso (Alberto, Roberto, ecc.) stanno per “illustre, famoso”; quelli in hardhu (Gerardo, Leonardo, Riccardo) contengono il riferimento a forte, valoroso, duro (si pensi al termine inglese hard). E così via. La ricerca di originalità a tutti i costi, l’influenza dei nomi di personaggi famosi e i contatti sempre più prossimi con altre culture se da una parte hanno portato a un arricchimento del nostro repertorio onomastico, dall’altra hanno avuto anche conseguenze esiziali e ridicole: si pensi alle 67 variazioni di Katia (Katja, Kathya, ecc.), al padre napoletano che ha chiamato il figlio Varenne (già, proprio come il cavallo…) o all’abuso di personaggi televisivi (su tutti, il nome Ridge, dal serial Beautiful). Poi ci sono da dirimere i casi dei nomi che sono sia maschili che femminili (Andrea è il più noto e pochi ricordano che viene dal greco anèr, andròs, maschio…). Lo studioso, a proposito di nomi (ma anche di cognomi) non manca anche di sfatare qualche luogo comune del tutto infondato: non è vero, per esempio, che il repertorio di nomi personali si stia riducendo, così come non è vero che Mario Rossi è la combinazione più diffusa in Italia (il primato spetta infatti a Giuseppe Russo e persino Antonio Esposito precede Mario Rossi). La cosa più interessante riguardo ai nomi, tuttavia, concerne il loro ciclo di diffusione (mediamente tra i 120 e i 140 anni): nomi, cioè, che vanno di moda in alcuni periodi, vengono poi agganciati dalle classi sociali meno elevate, si squalificano, si massificano, vengono avvertiti come poco originali e quindi dimenticati per poi ricomparire con lunghi salti generazionali: Emma, nome oggi diffusissimo tra le bambine (lo precedono soltanto – nell’ordine – Sofia, Giulia, Sara, Martina, Giorgia, Chiara, Aurora e Alice), è sparito per un lunghissimo arco di tempo. Il declino di un nome, quando viene avvertito come troppo diffuso, «può scendere almeno quattro gradini, e sono gradini pesanti» (p. 47). Primo: diventa sinonimo di uomo e donna qualunque (Tizio e Caia hanno seguito proprio questa strada). Secondo: dà origine a voci del lessico, come nel caso di monello, che deriva da Simone. Terzo: viene applicato al mondo della natura, come nella zona del cremonese, dove Caterina è il nome della coccinella. Quarto: i nomi diventano quasi dei tabù, perché riferiti a personaggi d’invenzione, pupazzi, veicoli, eccetera. Basti pensare a Carolina, diffusissimo nell’Ottocento e poi scomparso dopo che la sua estrema popolarità lo aveva fatto associare a una mucca di plastica che veniva regalata a chi comprasse i formaggini Invernizzi. Insomma, il repertorio di analisi, dati e indicazioni di vario tipo è fittissimo: dall’età media di un nome in un preciso momento storico (ogni nome ha un età calcolabile con esattezza e pari alla media dei suoi portatori), a certe stranezze dei maschili dai femminili (e viceversa: oggi Uga e Sergia, da Ugo e Sergio, ci sembrano strani quanto lo potevano sembrare Roberta, Federica e Stefania mezzo secolo fa), alle tautologie (Eugenio Bennato, nome e cognome, vogliono dire la stessa cosa), fino ai suggerimenti sui criteri per dare nomi ai figli.
Altrettanto piene di aneddoti, esempi, dati e analisi sono le sezioni dedicate ai cognomi, dei quali, innanzitutto, si cerca di tracciare una storia. È impossibile stabilire con esattezza – sentenzia lo Caffarelli – quando sono nati esattamente i cognomi. L’abitudine latina di usare il nome delle gentes (Claudia, per esempio, da cui Appio Claudio) era ben diversa da quella che conosciamo oggi, tanto più che nel Medioevo si era completamente estinta e le persone portavano soltanto il nome. Le cose cominciarono a cambiare intorno al XIV-XV secolo: inizialmente appannaggio soltanto delle famiglie altolocate, l’uso del cognome era sostanzialmente «un affare economico e perfino politico» (p.67). Non che fosse mancato qualche caso anche prima, ma è solo tra il Cinque e il Seicento che si cominciarono a diffondere i cognomi in senso moderno. In Italia, poi, dovemmo aspettare addirittura l’istituzione del’anagrafe con l’Unità d’Italia per avere la consacrazione del cognome. Le ragioni di questa innovazione, secondo il linguista, sono sostanzialmente tre: una stabile trasmissione di generazione in generazione; l’immutabilità e la non flessibilità (la forma non cambia di numero e di genere); la non corrispondenza, quanto al significato, con la realtà del portatore: un Grassi non era necessariamente, come in passato, un ciccione e un Vaccaro non è detto che governasse le mucche.
Non che i cognomi nascessero soltanto dagli attributi: a voler cercare una regola, si potrebbe dire che quella più generale che li riguarda ha come riferimento l’inclusione e l’esclusione: si appartiene o non si appartiene a un gruppo. L’origine dei cognomi può essere fatta risalire a 8 criteri diversi: 1) il contatto con un'altra lingua, come per Macaluso (schiavo affrancato, dall’arabo); 2) il nome di un luogo (come per Salerno e Milani); 3) la corrispondenza con un aggettivo relativo a un nome di popolo (Lombardi, Calabrese); 4) cognomi che derivano «dal luogo di residenza o di lavoro interno al centro abitato o sito nei pressi di quelle località» (p. 75), come nel caso di Riva, Piazza, Fontana; 5) i cognomi derivanti da un mestiere o da un titolo onorifico (Ferrari, Nobile); 6) cognomi che derivano da un soprannome legato all’aspetto fisico (Mancini, Moretti); 7) quelli legati a comportamenti e azioni (Bevilacqua, Tagliapietra); 8) infine, quelli imposti ai bambini abbandonati, tra i quali i più noti sono Esposito (a Napoli) e Proietti (a Roma), ma che possono rimandare anche alla religiosità degli istituti d’accoglienza, come nel caso di Sperandio. Quale che sia il criterio, i più diffusi finiscono più per -o (Russo, Esposito, Romano, Colombo, Marino e Greco) che per –i (Rossi, Ferrari, Bianchi e Ricci), al contrario di quanto si pensa comunemente). I fenomeni migratori, poi, hanno contribuito a riscrivere completamente le statistiche: basti pensare che a Brescia Singh è il cognome in assoluto più diffuso, prima di Ferrari, mentre nella stessa città lombarda Kaur è terzo.
La potenza dei cognomi si estrinseca anche nella loro capacità di trasformarsi in parole nuove a servizio del lessico, come nel caso di Carpaccio e Travet.
Tutti questi esempi, dunque,m dovrebbero dare la misura di quanto il libro di Caffarelli si proponga come una commistione gustosissima di ironia (non a caso Totò – che aveva unì’enorme sensibilità linguistica – viene ripetutamente citato) e rigore scientifico, che fa di questo volume un’occasione da non perdere.