La società dromologica nella quale viviamo ci impone tempi
sempre più serrati, ci costringe a un affanno costante, restituendoci la
sensazione di una continua mancanza di tempo. Il sociologo tedesco Hartmut
Rosa, che si occupa di queste tematiche da diversi anni, compie un tentativo
avvincente e in gran parte riuscito sul piano teoretico (ma con significativi
accorgimenti metodologici) di riportare il problema dell’accelerazione entro il
perimetro della teoria critica di ispirazione francofortese, facendo sponda su
un concetto come quello di alienazione di chiara matrice marxista e quindi nel
solco della formazione di Horkheimer, Adorno, Habermas, etc. In un afflato che
si direbbe più di filosofia sociale che di sociologia, Rosa si domanda se si
possa dire una vita buona (la εὐδαιμονία
dei filosofi greci) quella che viene spesa nel’ossessione della velocità e
della competizione. La risposta è abbastanza ovvia ma ciò che rileva nel libro
è l’argomentazione fittissima a cui il professor Rosa ricorre.
Da un lato la pace di Vestfalia (1648), dall’altro la prima
rivoluzione industriale nel secolo successivo costituiscono per Rosa le pietre
angolari sulle quali è stato eretto l’edificio della società
dell’accelerazione. La prima perché avrebbe innescato la competizione tra Stati
nazionali, la seconda perché ne sarebbe diventata lo strumento. Ecco quindi che
nel breve lasso di tempo che trascorre tra la prima modernità (il ‘700) e la
tarda modernità (oggi), gli individui si sono trovati a vivere un salto che da
intergenerazionale si è fatto prima generazionale durante la modernità
“classica” e quindi intragenerazionale. Attingendo da Laslett, Rosa chiarisce cioè
che conformemente a quanto appena detto “la struttura della famiglia tipo nelle
società agricole tendeva a rimanere stabile nei secoli e il cambio
generazionale lasciava intatta la struttura di base. Nella modernità classica
(all’incirca tra il 1850 e il 1970) la struttura era invece pensata per durare
una generazione: era organizzata attorno a una coppia e tendeva a dissolversi
con la morte dei coniugi. Nella tarda modernità si osserva una tendenza
crescente da parte dei cicli di vita famigliare a durare meno della vita
dell’individuo: aumento di divorzi e nuovi matrimoni sono la prova più evidente
di questo fatto”. Con quali conseguenze? Devastanti, è quasi pleonastico dirlo,
e coinvolgenti l’intera esistenza dell’individuo, la sua identità, il suo
rapporto con lo spazio, con la politica, con gli altri. Per Rosa la presenza
prominente dell’accelerazione, in larghissima parte effetto
dell’industrializzazione e della conseguente trasformazione del capitalismo, è
stata il vettore di una forza totalitaria che assorbe ormai una grandissima
parte del passaggio, per dirla con Koyrè, dal mondo del pressappoco
all’universo della precisione. L’accelerazione delle macchine e della
tecnologia non ha affatto mantenuto la promessa liberatrice che portava con sé.
Al contrario, ci ha messo nelle condizioni di sentirci tutti in colpa alla fine
della giornata, “perché non abbiamo soddisfatto le aspettative. Non siamo mai
in grado di arrivare alla fine della nostra ‘lista di cose da fare’, anzi la
distanza dal fondo di quell’ammasso di roba cresce ogni giorno”. Questo meccanismo,
a detta dell’autore di Accelerazione e alienazione, non solo si applica “ai
lavoratori salariati, ma anche ai datori di lavoro e ai dirigenti: nessuno di
loro ha mai potuto controllare le regole del gioco, ma solo imparare a giocare
bene”.
In questa prospettiva è comprensibile che il notissimo
apoftegma di Blade runner, “La luce che arde col doppio di splendore brucia per
metà tempo”, rischi di potersi attagliare non soltanto ad alti dirigenti,
intellettuali e gente super indaffarata (la comunità sociologica potrebbe
richiamare alla memoria il caso di Statera), ma persino all’arte, tanto è vero
che quella stessa frase campeggia come epitaffio sulla tomba di Jimi Hendrix,
sebbene postuma (il film fu girato 12 anni dopo la morte del chitarrista
americano). Siamo tutti schiavi del multitasking, insomma.
Tornando a Rosa e alle sue osservazioni sugli esiti
dell’accelerazione nelle nostre vite, egli, come si accennava, riporta esempi
dai campi più disparati. Innanzitutto l’identità, che oggi si è fatta per così
dire “situazionale”, addirittura “usa e getta”. Prendendo spunto da Simmel
(1903), che agli effetti dell’industrializzazione sulla formazioni urbane
dedicò una parte fondamentale della sua opera, Rosa ci ricorda ad esempio che,
al contrario di quanto avveniva in passato, “molto di rado abbiamo a che fare
con persone che sono state testimoni di tutto l’arco della nostra vita: una
cosa, questa, che ha conseguenze anche sulle forme moderne di soggettività”. Non
sorprende allora che una delle risposte che gli individui danno a questa frammentazione
e ingovernabilità dell’identità sia la ricerca della gratificazione istantanea attraverso
i comportamenti di consumo.
Dentro questa metamorfosi della soggettività c’è anche la
contrazione dello spazio, l’aumento dei voli intercontinentali che rendono
possibili amicizie con persone fisicamente assai lontane, i rapporti mediati
dai social network. Da questo punto di vista, l’uomo della tarda modernità è
costretto ad adattarsi a uno stile relazionale che nell’arco di una sola vita
(la sua) gli impone compiere una trasformazione che l’intera storia
dell’umanità non ha ancora realizzato. Per dirla con un paio di paroloni,
l’ontogenesi dell’individuo si separa nettamente dalla filogenesi della sue
specie, costringendolo a un adattamento cognitivo del suo rapporto con lo
spazio. Su questo punto il pensiero di Rosa si fa icastico: “la vicinanza e la
distanza sociale ed emotiva – scrive il sociologo tedesco – non sono più legate
al fattore spaziale, tanto che il nostro vicino può essere per noi un perfetto
estraneo, mentre qualcuno dall’altra parte del globo potrebbe essere il nostro
partner più intimo”.
Parimenti, anche la politica e i processi democratici sono
messi a dura prova dai meccanismi di accelerazione: se già una ventina d’anni
fa Popkin e Dimock (1996) parlavano di “scorciatoie informative” a proposito
delle scelte elettorali dei cittadini, oggi questo meccanismo è stato
ulteriormente contaminato dalla svolta “estetica” della politica, con una
predominanza dell’essere più “trendy” o “cool” rispetto a idee e programmi, con
inevitabili ricadute sulla volubilità dell’elettore, capacissimo di cambiare
repentinamente sponda rispetto a proposte politiche sempre meno differenziate. Anche
per questo – suggerisce Rosa – “l’idea di guida da parte della politica si è
trasformata da strumento di dinamicizzazione sociale, nella prima età moderna e
nella modernità classica, a barriera e ostacolo a un’ulteriore accelerazione in
condizioni tardomoderne. Per questo il progetto neoliberale degli ultimi
vent’anni perseguiva il progetto di rendere più veloce la società (e in
particolare i flussi di capitale) riducendo o addirittura sradicando il
controllo o la guida politica – attraverso misure di deregolamentazione,
privatizzazione e giuridificazione”.
Il notissimo motto di Benjamin Franklin secondo il quale il
tempo è denaro ha dunque investito non soltanto il mondo della politica e degli
affari, ma quasi qualsiasi attività umana, al punto da ergere a diktat
teleologico il valore tanto dell’uno quanto dell’altro. Competizione è
diventata di conseguenza la parola d’ordine e “poiché guadagniamo stima sociale
attraverso la competizione, la velocità è essenziale per la mappa del
riconoscimento nelle società moderne. Dobbiamo essere veloci e flessibili per
guadagnare (e preservare) il riconoscimento sociale, ma allo stesso tempo è
proprio il nostro desiderio di riconoscimento a muovere incessantemente le
ruote dell’accelerazione”. Da questo processo aberrante e, appunto, alienante,
non sono immuni né la scienza, che ha creato la tecnologia che ha a sua volta
determinato l’accelerazione, né tanto meno l’Università. Lo dimostra il fatto
che nel mondo accademico viviamo sotto lo spauracchio del “pubblica o muori”,
con la conseguenza che le pubblicazioni sono sempre più spezzettate,
rapsodiche, istantanee, spesso prive di quel carattere di riflessione che
necessiterebbe all’uopo, col risultato paradossale che, con i criteri oggi vigenti,
Ferrarotti non otterrebbe l’abilitazione e potremmo scordarci le ricerche
seminali e pionieristiche dei coniugi Lynd, di Thomas e Znaniecki o di Kinsey:
tutte hanno richiesto troppo tempo per essere pubblicate.
Se a Rosa va riconosciuto il rigore argomentativo, il
continuo tentativo di proporre soluzioni e la capacità si segnalare i paradossi
di questa situazione (il cui emblema è l’ingorgo stradale) al problema del
livello empirico della questione, qualche perplessità sorge in merito alle
soluzioni che, comprensibilmente, non vengono esplicitate. Rosa concede pochissimo
spazio ai teorici della decrescita o ai sostenitori dei modelli slow, né prende
in considerazione possibili manifestazioni di luddismo. In filigrana sembra di
leggere una felpata rassegnazione, sebbene in opere precedenti sullo stesso
tema il sociologo tedesco abbia proposto una democratizzazione radicale delle
pratiche sociali in cui siamo immersi. A meno di non voler continuare a vivere
una vita nella quale è la tecnica a dettare le regole. Ma, si sa, siamo tutti
figli del nostro tempo. E quello attuale è così.
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