Il titolo è una provocazione tutt’altro che priva di senso.
In ossequio a un’immagine “austera e monumentale attribuita ai grandi
personaggi del passato”, ci è quasi impossibile credere che Leopardi, nella
sua corrispondenza, facesse
ricorso così frequente a un turpiloquio composto da parole con la doppia zeta. È solo una delle tante sorprese che Giuseppe Antonelli,
docente di Storia della lingua italiana all’università di Cassino nonché
conduttore della fortunata trasmissione radiofonica La lingua batte, propone
al lettore in questa agilissima antologia di riflessioni sulla lingua italiana
e sui falsi miti che la affliggono. A cominciare dall’idea (infondata, sostiene
l’autore) che l’italiano sia alla deriva e a proseguire con una divertentissima
e sempre ottimamente documentata rassegna di osservazioni e curiosità che
testimoniano l’andamento ondivago della lingua nazionale, la sua metamorfosi
continua, l’impossibilità di ingabbiarla all’interno di regole fissate una
volta per tutte. In questa raccolta gustosissima di aneddoti e riflessioni che
poggiano con disinvoltura tanto su elementi colti quanto sulla cultura pop che
tanto piace all’autore apprendiamo dunque che fino a tutti gli anni ’70 le
grammatiche vietavano l’uso di “lui” e “lei” come soggetto, preferendo ad essi
“egli” ed “ella”, termini che oggi appaiono desueti soprattutto nel parlato.
Così come veniamo a sapere che alcune forme del congiuntivo come “dichi” e
“venghi” non sono solo il frutto della comicità del ragionier Fantozzi, ma
forme usate già dai padri della lingua (vadi era forma leopardiana, facci
dantesca, venghi boccacciana). Il tono leggero ma mai superficiale torna a
farsi accademico nelle occasioni in cui Antonelli chiosa a modo suo alcuni
punti nodali come per esempio quello della punteggiatura, rispetto al quale ci
ricorda che si è da tempo diffusa una “concezione ingenua della punteggiatura.
Quella per cui l’interpunzione servirebbe a riproporre le pause del parlato e
non – come invece è – a segnalare i legami tra le varie parti di un testo”. Ma allora:
queste regole esistono o no? Il filo rosso del volume pubblicato da Mondadori
contrappone costantemente la ragionevolezza delle regole con la necessità di
non inamidare la lingua, lasciandola percorrere dalle suggestioni che
provengono dalla società, dai passaggi delle mode (dal cioè al piuttosto che
usato con funzione disgiuntiva), dalla radicale metamorfosi della funzione dei
dialetti (oggi definitivamente sdoganati e non più indizio di inferiorità
culturale), dall’influenza di neologismi e tecnologia. E, a proposito di
tecnologia, alcune delle pagine più interessanti e divertenti sono quelle nelle
quali si parla degli errori dei correttori ortografici, che finiscono
inevitabilmente per segnalare il problema di chi debba correggere il
correttore. Né meno divertenti sono le pagine in cui l’autore si fa beffa delle
ridicolaggini di un certo purismo bacchettone – che nel Codice di
autodisciplina della televisione vietò parole come vizio, membro e seno,
persino in espressioni come in seno all’assemblea – o del fascismo, che nel suo
tentativo di italianizzare parole come cocktail (diventato “arlecchino”) o
sauté di cozze (trasformato in “sfritto”) venne turlupinato da Tullio De Mauro,
il quale ipotizzò che la locuzione “Per Benito” non fosse altro che il
participio passato del verbo perbenire (io perbenisco, tu perbenisci, ecc).
Se i contenuti sono costantemente frizzanti, la prosa non è
da meno. Mostrando un gusto inarginabile per il calembour, l’autore infila
nella sua scrittura sempre chiarissima una serie di invenzioni linguistiche
frutto di una formidabile creatività: per questa strada, le regole della
punteggiatura diventano un “solfeggio in quattro quarti usato da alcune
grammatiche”, le abbreviazioni dello scritto – che a noi paiono un’invenzione
resa necessaria da sms e Twitter ma che invece erano già diffusissime nell’Ottocento
per poter risparmiare sull’invio della missiva – potevano essere accompagnate
da un testo a “interlinea zero” (il riferimento è un altro, ma non importa). Con
inevitabile passaggio dall’epistola all’e-pistola, con la quale si possono
sparare colpi a suon d’acronimato (t.v.b.), magari in barba al solito piatto
del giorno (le linguine alla norma) e con un occhio (anzi due) sull’e-taliano.
E se poi qualche congiuntivo vi va di traverso, pazienza. Tanto, si sa, il
congiuntivo è come il colesterolo (è sempre Antonelli che scrive): “c’è quello
buono e quello cattivo”. Un’effervescenza che fremita a ogni pagina anche attraverso
analogie assai creative, come quando l’autore, a proposito dei tormentoni,
indica le canzoni come “una specie di carbonio 14 dei tormentoni linguistici”.
Unico neo (a parte un uso poco sorvegliato del verbo
chiedere in luogo di domandare, distinzione che il linguista dovrebbe conoscere a menadito) è il metodo: torna spesso l’impressione che nel suo indomabile
ottimismo Antonelli finisca per ridurre le ipotesi (linguistiche) a teorema,
come quando opera confronti tra epoche diverse per dimostrare che, per esempio,
non è vero che prima si scriveva bene e adesso no. Il metodologo si
aspetterebbe un confronto a campione su testi di origine diversa, laddove
l’autore prende tre esempi da qui e tre da là e dice: vedete? Sono uguali!
Robetta in confronto agli stimoli che un libro come questo
può fornire anche ai non addetti ai lavori, per i quali il sottotitolo non
potrebbe essere più veritiero: “l’italiano come non ve lo hanno mai raccontato".
È proprio vero!