mercoledì 27 marzo 2013

Serge Latouche - Usa e getta. Le follie del'obsolescenza programmata (2013, Bollati Boringhieri)





Nel film Prêt à jeter, di Cosima Dannoritzer, si vede un ragazzo alle prese con una stampante che non ne vuole sapere più di funzionare. Il tipo si rivolge a un centro assistenza autorizzato, dove gli rispondono che il costo della stampante nuova è praticamente lo stesso della riparazione. Il ragazzo è testardo: cerca in rete e scopre che il problema sta in un chip “messo appositamente nella macchina per farla bloccare dopo 18.000 copie”. Il ragazzo trova un software distribuito gratuitamente sul web da un internauta russo, che annulla il contacopie della stampante e la fa ripartire. È esattamente quello che è successo a me. Ed è un episodio analogo a un altro che mi è capitato di recente. Vado dall’elettrauto e gli domando: “Scusi, ma perché la prima automobile che ho posseduto non ha mai avuto bisogno che le cambiassi la batteria? Mi bastava rabboccare la stessa con l’acqua distillata…”. E lui: “Signore, ha visto che adesso le batterie, nell’alloggio dell’acqua distillata, sono tutte sigillate? Si è mai domandato perché?”. Ecco. Questi due episodi sono esemplificativi di cosa sia l’obsolescenza programmata, ossia l’accorciamento del ciclo di vita dei prodotti, argomento centrale di questo libro snello ma densissimo e formidabile di Serge Latouche, guru della decrescita e tra i massimi sostenitori al mondo della necessità di invertire la continua sbornia di consumi che andiamo facendo da oltre un secolo a questa parte.
Insieme al credito al consumo e alla pubblicità, l’obsolescenza programmata è la base del consumo forsennato: “la pubblicità crea il desiderio di consumare, il credito ne fornisce i mezzi, l’obsolescenza programmata ne rinnova la necessità”. Va da sé che quella programmata non sia la sola forma di obsolescenza. È però quella più perversa. Le altre sono l’obsolescenza tecnica e l’obsolescenza psicologica. Quella tecnica per gran parte della storia dell’uomo è proceduta con lentezza millenaria. La si può esemplificare nel passaggio dalla diligenza alla locomotiva. Quella psicologica è la quintessenza di quella che Vance Packard chiamava la persuasione occulta: metto in circolazione l’iPhone5 e il tuo iPhone4, perfettamente funzionante, ti sembrerà obsoleto. Quella programmata, dicevo, è la più mostruosa e perversa di tutte. Giustificata dall’assunto capitalista secondo il quale l’unico modo per mantenere costante l’occupazione è quello di mantenere costante il consumo, garantendo la deperibilità degli oggetti, l’obsolescenza programmata ha mandato in pensione i concetti di durata e recupero, con le sole eccezioni dei periodi di forte recessione. Ecco allora che tra il 1940, quando Dupont de Nemours lancia una calza di nylon praticamente indistruttibile (ha una tale solidità, racconta Latouche, che “può fungere da cavo per rimorchiare un’automobile” e non si smaglia mai, e il 2003, anno della prima class action contro l’iPod della Apple, le cose sostanzialmente non sono mai cambiate. Nel caso della calza di nylon, gli ingegneri dell’azienda stessa “vennero incaricati di fragilizzare la fibra miracolosa inserendovi dei geni di mortalità”; nel secondo, l’azione legale collettiva fu sollecitata dal fatto che gli acquirenti dell’iPod si erano accorti che il loro giocattolino “aveva una batteria non riparabile programmata per durare soltanto diciotto mesi”. Pur nella difficoltà di datare con esattezza l’eclissi dell’etica del durevole a tutto vantaggio dell’obsolescenza programmata, Latouche colloca quest’inversione di rotta intorno agli anni ’30 del Novecento, mentre non ha dubbi nell’additare il paese che ne è il maggiore responsabile: gli Stati Uniti d’America. Anticipato dal fenomeno dell’adulterazione, suo strettissimo cugino che ha investito il campo dell’alimentazione, l’obsolescenza programmata è figlia legittima di qualcosa con cui liberisti e neoliberisti ci martellano la testa da decenni: la concorrenza. La concorrenza non è affatto benefica come dimostra quello che avvenne negli anni ’30, quando il modello firdista – di per sé non certo un modello di virtù, giacché era fondato sulla catena di montaggio – subì i contraccolpi della concorrenza della General Motors. Quest’ultima produceva auto molto meno affidabili, di qualità e resistenza nel tempo inferiori, ma vi aggiungeva i gadget e il colore (all’opposto, è diventata famosa la frase di Henry Ford a proposito della sua Ford T: “potete acquistarla di qualsiasi colore, purché sia nero”). Da lì in avanti, una gran parte degli oggetti che contenessero della tecnologia avrebbero dovuto osservare lo stesso diktat: ridurre il ciclo di vita del prodotto. Ecco allora che eventi come la festa organizzata nel 2001 in occasione del centesimo anno consecutivo di funzionamento di una lampadina a filamento di carbonio che “dal 1901 aveva illuminato ininterrottamente l’ingresso” della caserma dei pompieri di Livermore, in California, diventano una rarità assoluta e cedono il passo, per rimanere nello stesso ambito, a prodotti sempre più deperibili, a lampadine che si fulminano nel giro di qualche mese. È una storia che nasce ancora prima, e le cui avvisaglie iniziali si possono rintracciare nel 1872, anno in cui in America si producevano 150 milioni di colli e polsini di camicia non lavabili. La “colpa”, però, non era tutta degli americani: gran parte degli immigrati europei erano uomini scapoli che non avevano alcuna consuetudine con lavaggio e stiraggio. La storia continuava con Gillette che inventò il rasoio usa e getta, Lasker che nel 1924 lanciò i kleenex, concepiti inizialmente per esaurire le scorte di cellulosa prodotta durante la prima guerra mondiale; dieci anni più tardi arrivarono i Tampax. Tutti questi eventi costituiscono soltanto la prima delle 5 fasi che Latouche individua nella marcia trionfale dell’obsolescenza programmata. La seconda è, appunto, il cosiddetto “modello Detroit” (la città delle automobili per eccellenza), con la fine del monopolio della Ford, a cui segue l’obsolescenza programmata propriamente detta, l’avvento della data di deperimento ovvero “il trionfo del nuovo usa e getta e infine l’obsolescenza alimentare”. Rispetto a queste ultime due, vale la pena di ricordare, per quanto riguarda la seconda ondata di usa e getta, l’invenzione della Motorola, negli anni ‘50, della prima radiolina che non poteva essere riparata. Per ciò che attiene all’obsolescenza alimentare, basterebbe l’abbandono della pratica della restituzione dei vuoti e la diffusione sempre più massiccia di prodotti i cui contenitori devono essere buttati (la massima perversione, a mio avviso, è l’insalata già tagliata e venduta in busta: gli acquirenti di quei prodotti andrebbero incriminati e processati per direttissima perché sono la quintessenza del cretino, stando alla definizione di Carlo Maria Cipolla: oltre a danneggiare gli altri, l’ambiente, danneggiano anche loro stessi a causa del microclima insalubre che si crea all’interno della busta, dove proliferano batteri a gogo) per averne un qualche sentore. Latouche ci ricorda anche del fenomeno sempre più diffuso del dardanismo, che – al di là del nome dotto – altro non è che una forma “di distruzione su vasta scala delle derrate alimentari”.
Tutto questo non pone soltanto serissimi problemi ambientali, economici e sociali, ma anche etici. Scomparso pressoché del tutto il “capitalismo buono” (un ossimoro?), gli uomini d’affari di oggi e i loro lacchè hanno una sola ragion d’essere: trarre il massimo profitto dall’ampliamento della domanda. “Come la morale di Eichmann, che consisteva nell’eseguire senza discutere le istruzioni provenienti dall’organizzazione – ci ricorda Latouche – la religione del profitto è la porta spalancata su quella che Hannah Arendt chiamava la banalità del male. Ma come difendersi da tutto ciò? È chiaro che la lotta tra produttori e consumatori è impari: troppo possente la capacità di seduzione dei primi sui secondi, troppo difficile riuscire ad avviarsi verso quella “abbondanza frugale” (un altro ossimoro) che però è l’unica via di uscita a una situazione che non lascia scampo alla fine delle risorse naturali. L’industria dovrà dunque abbandonare progressivamente l’obsolescenza programmata incorporata nei prodotti, ma al tempo stesso sarà necessario che i consumatori comincino a transitare – come suggeriva anche Rifkin ne L’era dell’accesso – verso beni condivisi. Ma il vero punto chiave – come avevo già ricordato recensendo Lareligione dei consumi di Ritzer – è la decolonizzazione dell’immaginario e il reincantamento del mondo: soltanto quando ci saremo liberati dell’ideologia dell’usa e getta e dell’accumulo seriale di beni forse potremo sentirci davvero più felici e liberi.

1 commento:

  1. Hi, B. Listen, it's Ajnfah again from plectorus.
    Could you please try to inform our administrator to send me the proper info (username, password) so I could log in.
    Thanks a lot! By the way, how you're doing?

    RispondiElimina