domenica 30 dicembre 2012

James Hillman - Gli stili di potere (Rizzoli, 1995)




Erano anni che mi ripromettevo di leggere un libro di Hillman, ma ogni volta che me ne trovavo uno nelle mani in qualche libreria, dopo alcuni minuti di lettura venivo regolarmente investito dai sintomi dell’orchite e non sono mai riuscito a portarne uno alla casa. O, almeno, così è stato fino a quando non ho deciso di partire da questo libello di poco più di 100 pagine, confidando che stavolta avrei superato l’impresa. Scommessa persa almeno in parte, perché avrei impiegato meno a leggere l’intera Recherce di quanto non ci ho messo a finire queste poche pagine che sembrano scritte da un aspirante filosofo in pieno stream of consciousness, capace di scantonate clamorose, come nel caso dell’antropomorfismo animale (pagina 62) o della dissertazione sul carisma che perde totalmente di vista la lezione weberiana. Un’uggia carica di bizantinismi, dalla quale emergono le facce più diverse del potere. E se alcune di queste sono scontate (controllo, prestigio, leadership, autorità e tirannia), altre lo sono decisamente meno (concentrazione, entusiasmo, decisione), senza per questo riuscire a rendere il testo più accattivante. I contenuti più interessanti, l’unica cosa che salverei in questo volumetto, stanno nella ricostruzione dell’etimologia di molti dei concetti chiave usati nel testo: da quello, centralissimo, di potere (da potis esse, cioè “essere capace”), a quello di prestigio come inganno (si pensi al prestigiatore), fino alle sfumature della parole fama, che quando sono buone producono vocaboli come famoso e se invece sono cattive fanno trasformare la parola in infame e malfamato. Imperdibile la prefazione di Silvia Ronchey, se si vuole toccare con mano il prototipo di una scrittura arcana, involuta, scritto sfacciatamente per ambagi (non sapete cosa vuole dire ambagio?), tipica di una certa intellighenzia salottiera che ha mandato a memoria il catechismo di Adorno sul gusto di spararle così grosse per dare al lettore la sensazione di avere scritto, e detto, a ogni frase una cosa ancora più intelligente della frase precedente. A condizione che nessuno capisca.

martedì 25 dicembre 2012

Paolo Branca - I musulmani (Il Mulino, 2000)




La questione sollevata da quello che, con una certa enfasi lessicale, si è arrivato a chiamare “scontro di civiltà” ha la sua radice nel contatto sempre più diffuso tra mondo islamico e mondo occidentale. Questo saggio di Paolo Branca, islamista alla Cattolica di Milano, cerca di sfrondare alcuni dei potenziali pregiudizi che investono gli esponenti della seconda religione più diffusa al mondo con una programmaticità evidente fin dal sottotitolo: “per secoli li abbiamo temuti, ora dobbiamo conoscerli”. Lo scopo, per quanto perseguito con obiettività scientifica, evitamento di aggettivazioni infelici e rigore argomentativo, viene però raggiunto solo a metà. Non per demerito dell’autore, ma perché, per quanto l’islam abbia cercato in alcuni casi la via del riformismo e del rinnovamento, in esso si depositano certi caratteri tipici della precettistica religiosa, più o meno inaccettabili a seconda delle versioni. Già, perché certi passi del Corano – il testo sacro dell’islam – non sono granché rasserenanti, a cominciare dalla legge del taglione, a proseguire con la disapprovazione del celibato e a finire con la discriminazione di genere. Tutte cose note e tutt’altro che prive di fondamento. Ma nel testo si fa menzione anche di elementi meno noti, a cominciare dalla pronuncia corretta del nome (islàm) e a proseguire con le tante derivazioni del canone originario, tra le qualiil sufismo è tra le più interessanti e innovative.
Il volume fa piazza pulita anche di alcuni equivoci che si sono creati intorno all’islam. Tra questi, quello che vorrebbe una sorta di equivalenza tra islam e mondo arabo, dimenticando che la lega degli stati arabi (Algeria, Arabia Saudita, Bahrein, Comore, Egitto, Emirati Arabi, Gibuti, Giordania, Iraq, Kuwait, Libia, Libano, Marocco, Mauritania, Oman, Palestina, Qatar, Siria, Somalia, Sudan, Tunisia e Yemen) è solo una parte del complesso arcipelago islamico, del quale non va trascurata la rilevanza dell’islam nero (diffuso soprattutto in Senegal, Mali e Sudan), o quella dell’Indonesia, che è il paese islamico più popoloso al mondo. Attraverso il sistema dei media, nel mondo occidentale arrivano con più facilità le notizie relative alle frange estreme dell’islam, quelle che hanno attecchito in Iran, Afghanistan e Pakistan, se non addirittura nella ex-Jugolavia, dove per tutti gli anni novanta si sono svolte sanguinarie guerre secessioniste in nome della religione. Alla stessa stregua, suonerà insolita la mancata coincidenza, almeno nelle intenzioni, tra islam e nazionalismo, giacché alcuni stati islamici nei quali la versione integralista è più diffusa hanno finito proprio per far coincidere le due cose.
Nonostante dunque le tante prescrizioni e proscrizioni che ammantano la dottrina islamica – dal digiuno durante il Ramadan alle pratiche alimentari fino alle cinque preghiere quotidiane – l’islam mostra anche alcuni elementi di forte coesione sociale, quanto meno a livello fondativo: tra questi, il collettivismo (che porta i suoi adepti a disprezzare l’individualismo diffuso in occidente) e lo sguardo rivolto al passato.
Coerente con il titolo della collana (Farsi un’idea), il volume rimane entro il solco di una scrittura di forte impronta accademica e lo stile, con un periodare spesso lungo, non rende granché accattivante la lettura.

venerdì 14 dicembre 2012

Alessandro Baricco - Una certa idea di mondo (La Biblioteca di Repubblica, 2012)




Si apre e si chiude con un’autobiografia (la prima è quella del tennista Agassi, la seconda quella di Darwin) questa carrellata durata 50 settimane sulle pagine culturali de La Repubblica e confluita poi in questo volumetto godibilissimo, uno di quei libri che – direbbe lo stesso autore – anche in bagno vanno piuttosto bene. L’ha scritto Alessandro Baricco, che non ha bisogno di presentazioni, e che col suo stile carico di inventiva, accostamenti spiazzanti (“scrittura celibe”) e ironia mette in fila scrittori e scrittrici, autori italiani e stranieri, romanzi, saggi e racconti. Lo scrittore piemontese smonta, analizza, esamina, confronta, adottando  narcisisticamente spesso sé stesso come parametro (“leggere i libri dei contemporanei ti procura una certa autostima”). Dalle sue pagine viene così fuori che Dickens, almeno stando alle osservazioni che ne fa Orwell e che vengono riprese dallo stesso Baricco, era “un autore piuttosto ignorante, un caricaturista, uno scrittore incapace di sviluppare i personaggi”. Colazione da Tiffany di Capote è “il massimo” che uno scrittore possa scrivere; Il Discorso sul metodo di Cartesio è “un libro di avventure”. E sapete di cosa parla Fantozzi totale, di Paolo Villaggio? Della tristezza, ci suggerisce il nostro. E così via sciorinando giudizi perentori e considerazioni lapidarie: la santissima trinità americana di grandi scrittori dall’inflessione biblica sarebbe composta da Melville, Faulkner e McCarthy; Christa Wolf sa raccontare il male come nessun altro; Trilogia della città di K. è “il libro più triste” che Baricco abbia mai letto; la guerra del Peloponneso è la madre di tutte le guerre. Scorrendo le pagine apprendiamo che Vittorini, che lavorava presso Einaudi, ha stroncato gente come Tomasi di Lampedusa e Fenoglio (ma questo si sapeva già…), e possiamo spiluccare tra aneddoti meravigliosi ed esilaranti (da Glenn Gould che si fa portare ovunque il suo Steinway CD 318 per suonare sempre con lo stesso piano alle aste per i matrimoni degli Illiri o alla tragica campagna di Russia di Napoleone). Dal libro trapelano alcune delle passioni del suo autore (nella top fifthy trovi anche Storia delle idee del calcio di Mario Sconcerti), ma la sua bellezza contagiosa sta nella sua assoluta godibilità, nelle invenzioni costanti della prosa e nella capacità di farti entrare nei segreti della scrittura da addetto ai lavori che azzecca sempre i vocaboli giusti, precisi, per fari capire le cose. E quando c’è da mazzolare sullo stile di questo e di quello, Baricco non è certo uno che si tira indietro. Come quando, parlando della difficoltà di cimentarsi con il romanzo storico (siamo nella scheda di Wolf Hall, scritto da Hilary Mantel), ironizza alla sua maniera: “io trovo incredibile come tanti narratori si infilino in simili scalate da sesto grado superiore con un equipaggiamento stilistico che supera di rado l’infradito”. Chiaro, no?

lunedì 3 dicembre 2012

Giovanna Axia - Elogio della cortesia (Il Mulino, 1996; ed. 2012)





Era da qualche tempo che mi interrogavo sul ruolo della cortesia nelle relazioni sociali, che rimanevo senza risposta alla disattenzione civile che sconfina quasi sempre nella maleducazione di chi non risponde nemmeno a un saluto (a cominciare dai miei amabili condòmini). E d’altronde non è un caso che in epigrafe su questo blog campeggi una frase di Cormac McCarthy: “Quando non si dice più ‘grazie’ e ‘per favore’ la fine è vicina”. Poi finalmente ho trovato questo volumetto di Giovanna Alexia (1950-2007), originariamente pubblicato nel 1996 e rimesso in circolazione nel 2012 da Il Mulino. Non si tratta di una versione aggiornata dei precetti di Giovanni Della Casa né di un abbecedario da galateo linguistico. Piuttosto, Elogio della cortesia parte da una prospettiva psicologica con incursioni nella sociolinguistica e nella sociologia per proporre una lettura della cortesia come lubrificante sociale. Pur richiamandosi nella sua accezione etimologica alle regole della vita di corte, la cortesia viene qui definita dall’autrice senza essere confinata a una mera dimensione formale, bensì come la capacità di usare il linguaggio avendo cura di non offendere i sentimenti altrui, di non limitare lo spazio di libertà degli altri. Da questo punto di vista, la cortesia si articola su tre fattori: il potere, che lega i due attori della comunicazione; la distanza sociale (che però, diversamente dal potere, è una relazione di tipo orizzontale, laddove il potere è verticale) e il costo dell’atto linguistico. Già perché la cortesia ha “la capacità di ottenere azioni con le parole” e di conseguenza “ogni atto linguistico che in qualche modo minaccia i sentimenti degli altri ha un costo, più o meno alto, a seconda delle circostanze”. In più, come ha suggerito Goffman, la cortesia ha una faccia positiva e una negativa. Non nel senso che esista anche una cortesia negativa – per quanto esistano invece dei paradossi della cortesia, quando questa sconfina in un eccesso di formalità che sancisce freddezza e distacco (la gelida cortesia) – ma nel senso che si possono compiere atti linguistici che coincidono con l’universale “desiderio di essere liberi da imposizioni altrui e di vedere rispettato il proprio territorio”. La faccia positiva della cortesia si estrinseca invece nel “desiderio che la persona con cui sto parlando desideri per me tutte le cose che desidero io”. Ancora più interessante è vedere come la Axia, che ha esplorato a lungo le relazioni tra infanzia e cortesia per individuare il momento in cui i bambini cominciano ad apprendere le regole della cortesia, sia andata a operativizzare il concetto stesso in sede di osservazione empirica. In questo caso gli indicatori sono quattro: la forma interrogativa (per esempio: “mi dai la matita” contro “dammi la matita”); la presenza di “per piacere” (o sue varianti); l’uso dell’ausiliare (“mi puoi dare la matita?” contro “mi dai la matita?”) e la presenza di una giustificazione per la richiesta (“…ho dimenticato la mia a casa”).
Si scopre allora che intorno agli 8-9 anni i bambini sono già pienamente consapevoli di queste regole, sanno addirittura verbalizzarle, ma già a cinque sono in grado di distinguerle. Con una fitta rete argomentativa e di riscontri empirici, l’autrice mostra come l’uso della cortesia sia in stretta correlazione con l’intelligenza (sebbene la Axia trascuri di prendere in considerazione l’ipotesi di una relazione spuria condizionata dal livello culturale della famiglia di appartenenza) e come via sia anche una base morale della cortesia.
Un libro che affonda dunque la sua forza argomentativa nella psicologia e nella filosofia del linguaggio (Austin su tutti), che traccia una precisa linea di demarcazione tra cortesia e concetti affini (dalla deferenza fino alla piaggeria come uso machiavellico della cortesia stessa), anche se non di rado inciampa su osservazioni scontate.
A lettura finita ho trovato la risposta che cercavo. Sta in queste parole: “le persone sono scortesi non tanto perché non sanno parlare bene, quanto piuttosto perché non si interessano dei sentimenti altrui o non si sforzano di capirli”. Amen.

domenica 25 novembre 2012

Agnese Vardanega - L'analisi dei dati qualitativi con Atlas.ti (Aracne, 2008)





Testo molto tecnico per esperti di content analisys, il libro della Vardanega ha il pregio di essere l’unica monografia specifica dedicata al programma Atlas.ti comparsa in Italia. Peccato però che il saggio si collochi in una zona anfibia tra l’approfondimento e i suggerimenti per il neofita, non riuscendo a soddisfare né l’uno né l’altro. Troppo carenti gli esempi, poco chiare le procedure, opachi gli obiettivi delle diverse opzioni metodologiche disponibili nel software. Molto meglio, allora, andare a recuperare l’ottimo testo introduttivo di Luca Giuliano e Gevisa La Rocca (L’analisi automatica e semi-automatica dei dati testuali, Led, 2008) o quello di Maurizio Lana (Il testo nel computer, bollati Boringhieri, 2004): oltre a rappresentare un modello espositivo assai più ordinato, entrambi hanno quanto meno il merito di non inglobare tutti i refusi del testo della Vardanega, dove se ne trova uno ogni 5-6 pagine, indizio di una scarsa cura in fase di revisione e di probabile mancanza di referaggio.
A tutto questo va aggiunto che il paradigma al quale si ispira il programma, la Grounded theory di Glass e Strauss, in buona parte della sociologia accademica viene considerata poco più che una barzelletta.

venerdì 23 novembre 2012

Maria Cristina Saccuman - Biberon al piombo (Sironi, 2012)





Viene voglia di conoscerla, Maria Cristina Saccuman, al termine della lettura di questo suo ottimo Biberon al piombo, non fosse altro che per la bizzarria del suo curriculum (neurobiologa e ricercatrice, ma al tempo stesso laureata in lettere e filosofia) e per l’incredibile capacità di far confluire nel testo una competenza vastissima e una invidiabile capacità di scrittura.
A quali pericoli per la salute sono esposti i nostri bambini? Con una esperienza da neurofisiologa di livello internazionale che si è occupata a lungo di disturbi del linguaggio nei bambini, l’autrice ci presenta questi ultimi come l’elemento più vulnerabile rispetto ai tanti agenti tossici che ci circondano. Ben lontani dall’essere adulti in miniatura, come vorrebbero farci credere coloro che tagliano corto quando si tratta di fare il computo di costi e benefici (che si traduce in una contesa tra progresso tecnologico e salute pubblica), i bambini, alla stregua degli adulti ma con rischi assai maggiori dovuti allo sviluppo, sono minacciati da sostanze come cloro, piombo, pop, mercurio, diossine, black carbon, bpa e molte altre. I pericoli sono dappertutto: dalle tubature dell’acqua ai vaccini, fino al latte materno. Se quest’ultimo “fosse venduto al supermercato, quello della maggior parte delle donne europee verrebbe tolto dagli scaffali, come merce contaminata da distruggere”, scrive lapidaria l’autrice. Eccesso di allarmismo? Un assist alle industrie del latte artificiale? Nient’affatto. Soltanto una spiegazione dettagliata, competentissima, che passa in rassegna una letteratura sterminata facendo riferimento all’eziologia dei disturbi dovuti ai troppi agenti chimici che pullulano nelle nostre vite. Un libro scritto come un thriller e con uno stile delizioso (si rimane ammirati dalle improvvise deviazioni dal rigore scientifico a favore di un descrittivismo parco ed ironico, come quando chiama in causa la “dottoressa Perera, una donna dall’aria garbata con una predilezione per le giacche di buon taglio”), che non manca di dare suggerimenti utili: dall’evitare l’esposizione dei più piccoli all’ozono, uscendo di casa la mattina presto o nelle ore serali al limitare l’ingestione di carni cotte alla brace, veicoli di dosi massicce di IPA (idrocarburi policiclici aromatici). Chi non fatica nel districarsi nel lessico settoriale dei biologi, non avrà difficoltà ad assegnare a Biberon al piombo l’en plein di stellette.

giovedì 15 novembre 2012

Alain De Botton - Come pensare (di più) il sesso (Guanda, 2012)


Negli anni ’90 lo scrittore svizzero Alain de Botton esordì con una terna di libri sorprendenti come Esercizi d’amore, Il piacere di soffrire e Cos’è una ragazza. Già in quelle prime opere, assai mature a dispetto della giovane età, si leggeva in filigrana la propensione a miscelare il registro narrativo con quello saggistico e filosofico, aiutandosi con immagini che talvolta risultavano surreali nell’economia del volume.
Da allora la sua produzione si è spostata progressivamente sul versante para-saggistico, pur continuando a mantenere uno stile fortemente narrativo, con incursioni in territori che vanno da Proust all’architettura e alla religione.
Questo breve saggio sul sesso prosegue su quello stesso selciato, nel tentativo di rompere alcuni dei luoghi comuni che investono il tema del libro: dall’accettazione del primato della bellezza fino alla pornografia e al tradimento. Peccato che, a dispetto di uno stile letterario molto fluido e sempre ironico (come quando ci ricorda che, in nome del sesso, “un falegname corpulento e tatuato quanto tenero passerà una serata al caffè davanti a una studentessa […] ad ascoltare distratto complesse spiegazioni sul significato della parola greca eudaimonia”), le considerazioni di de Botton risultino vacue, semplicistiche, probabilmente più adatte a un pubblico di lettori adolescenti che a una persona adulta e le immagini che le corredano sono meno che didascaliche, se non addirittura involontariamente grottesche. Gli esempi di questa pochezza si ritrovano sparse un po’ ovunque. Per esempio. le soluzioni proposte per le coppie di lungo corso che vedono appassire il desiderio – pur esplicitando qualche credito nei confronti della letteratura che si è occupata di sessuologia, a partire da Masters e Johnson – hanno molto d’ingenuo e fanno poco i conti con il moralismo diffuso (“un partner scatti all’altro delle foto di nudo, le carichi su un sito Internet e solleciti i commenti spassionati di un pubblico mondiale”).
La sezione più interessante e meglio argomentata è quella che tratta del rapporto tra amore e sesso: ma anche in quel caso, a ben vedere, l’autore non si distanzia granché dalla grande lezione freudiana, in una dialettica imperitura tra bisogno di sicurezza e bisogno di libertà.

domenica 11 novembre 2012

George Ritzer - La religione dei consumi (Il Mulino, 2012)


Conosciuto dal pubblico extraccademico soprattutto per avere pubblicato un testo seminale come Il mondo alla McDonald’s, George Ritzer riprende molti dei concetti impiegati in quel volume per ricontestualizzarli in un’opera dal respiro ancora più ampio che aggiorna l’analisi delle “cattedrali del consumo” alla contemporaneità.
Al concetto weberiano di razionalizzazione, vero punto di snodo dell’opera precedente, l’autore aggiunge quelli in incantamento, disincanto, simulazione, implosione e, naturalmente, strumenti di consumo. L’analogia tra fenomeno religioso e comportamento di consumo, a dispetto del titolo, è appena abbozzata, ma è sufficiente a mostrare quanto di coattivo e manipolatorio ci sia nella nostre vite e che ci spinge al consumo compulsivo senza che ce ne rendiamo più conto. Il gioco consiste nell’indurre alla sostituzione dei rapporti con gli umani con quelli inanimati delle merci, in un’ottica in cui diventa centrale la quantità rispetto alla qualità (size is matter), la spettacolarizzazione delle merci, l’implosione del tempo e dello spazio del consumo, nello spostamento dalla fabbrica come elemento chiave di una società basata sulla produzione al centro commerciale come icona di una società basata sul consumo. I grandi centri commerciali diventano allora i non luoghi adibiti ad attirare consumatori inconsapevoli verso una ridda di merci diversificate ma riunite all’interno dello stesso enorme luogo, con la contraddizione che ciò comporta in termini di impegno pedatorio da parte degli avventori.
Pur evitando precisazioni cronologiche eccessive, l’autore tende a collocare il repentino cambiamento dello scenario dei consumi dopo la seconda guerra mondiale: un cambiamento indotto tanto dalla diffusione di nuove tecnologie quanto dall’accesso ai consumi da parte di giovani e anziani, categorie sociali precedentemente escluse per ragioni tra loro profondamente differenti.
Ecco allora che in questo nuovo scenario cambiano i giocattoli – che se una volta rappresentavano una sorta di viatico verso la vita adulta, a partire dagli anni ’30 sono stati pensati appositamente per i bambini – vengono pianificate le strategie di esposizione delle merci (e qui sembra di ritrovare quel libro seminale di Vance Packard che è I persuasori occulti) e sempre più concentrati i luoghi del consumo. La potenza ipnotica delle merci finisce così per proporre nuovi strumenti di consumo che, secondo Ritzer, mostrano un numero crescente di analogie con le prigioni: spazi chiusi, disciplina ferrea, asetticità dei luoghi condivisi, telecamere, sorveglianza, percorsi obbligati (pensate a quando siete all’Ikea), eccetera. Il problema di come tenere alto il profilo dei consumi viene superato con un gioco di continuo re-incantamento e spettacolarizzazione delle merci stesse.
Un libro dunque assai ben argomentato, documentatissimo, non di rado ai limiti della pedanteria, che fa ampio riferimento alla condizione americana – autentico volano nel proporre la religione dei consumi a livello globale – e prosecutore ideale di classici come Weber, Veblen e Packard. Un libro che merita certamente attenzione, dunque, nonostante sia scritto con uno stile poco accattivante e presenti una forte ripetitività dei concetti.
Alla fine della lettura ci si domanda: perché mai dovrei scrivere una recensione? Nelle strategie di articolazione dei nuovi strumenti di consumo non rientra forse il fatto di far “lavorare” i consumatori stessi, come quando dobbiamo passare sotto il lettore per codici a barre le merci che ci accingiamo ad acquistare? E Amazon,o Anobii stesso, non sfruttano forse questo stesso meccanismo?

giovedì 1 novembre 2012

Giovanni Ciofalo - Infiniti anni ottanta (Mondadori, 2011)



Gran parte di ciò che la società italiana è diventata oggi lo si deve a ciò che è stato seminato negli anni ’80. È la tesi di Gi(ov)anni Ciofalo, docente di sociologia dei processi culturali alla Sapienza di Roma, che nelle circa 200 pagine (scritte in un corpo carattere talmente piccolo da essere realisticamente almeno un terzo di più) mostra, con esattezza di argomenti e puntualità di osservazioni, come le massicce trasformazioni intervenute a livello culturale e sociale nel nostro paese siano in gran parte addebitabili a quella rivoluzione che furono gli anni ’80. È facile vedere come il sistema televisivo sia stato in gran parte responsabile di questa metamorfosi – e infatti l’autore dedica quasi metà del volume all’argomento – al punto di contribuire a ridisegnare l’identità stessa degli italiani. In questa prospettiva, scrive Ciofalo, “è plausibile che in quegli anni l’atavica furbizia del carattere nazionale, la mancanza di spirito civico e l’arrivismo senza scrupoli degli italiani abbiano smesso di essere considerati disvalori di cui vergognarsi, per diventare strategie vincenti con cui affrontare le sfide della modernità”. Ecco allora che parole come evasione, intrattenimento, ridondanza, volgarità, kitsch e concetti come quello della sovraesposizione del corpo femminile si incuneano abitudinariamente nel vocabolario degli italiani, a tutto vantaggio di un ribaltamento epocale dei costumi e dei consumi degli italiani.
Documentatissimo, il testo si avvale sia di una massiccia mole di dati che di un’imponente bibliografia che Ciofalo dimostra di padroneggiare perfettamente, tanto sono dettagliati e consonanti al testo i riferimenti ai diversi autori, studi, ricerche. L’ampiezza di sguardo la si coglie soprattutto nei primi due capitoli dedicati a società e cultura (il primo) e alle industrie culturali degli anni ottanta (il secondo). Un libro imperdibile per chi quegli anni li ha vissuti con sufficiente maturità anagrafica e con la netta sensazione di essere testimone di una svolta radicale, ma che appassionerà anche chi oggi si volesse interrogare sul nostro presente. Unico neo, qualche vezzo linguistico tipico degli studiosi di comunicazione, a volte troppo inclini a creare neologismi cacofonici come “altroquandismo”. Inciampo veniale a fronte di una invidiabile capacità di scrittura.

martedì 30 ottobre 2012

Donata Francescato - Amore e potere (Mondadori, 1997)



Titolo e sottotitolo sono fuorvianti. L’autrice che sei anni prima aveva dato alle stampe quel libro seminale che è Quando l’amore finisce, parte ritagliando una porzione di quella tematica, cominciando appunto col discutere di amore e potere. Ma dopo poche pagine la dimensione psicologica si affievolisce per lasciare spazio ad altri ambiti disciplinari che la Francescato esplora in lungo e in largo: dall’economia alla pedagogia, dalla politica alla sociologia. Gli intenti divulgativi del testo sono d’altronde chiarissimi fin dal principio, dal momento che il volume è concepito sotto forma di intervista tra un immaginario “Aiem”, che deve ancora venire al mondo, e l’autrice stessa. Un buon viatico, dunque, per chi è pressoché a digiuno del problema del potere – che si presta certo più a una declinazione socio-politologica che psicologica – ma un’opera ridondante e con molte pagine scontate per chi quegli argomenti li frequenta da tempo. Per quest’ultimo tipo di lettore, sono proprio gli aspetti legati all’analisi psicologica quelli più pregnanti, come quando si parla del rapporto tra orgasmo maschile e femminile, da una parte, e capacità emozionale dall’altra o come quando si offre una lettura della ricerca spasmodica dell’innamoramento come accesso facilitato alle emozioni.

martedì 2 ottobre 2012

Donata Francescato - Quando l'amore finisce (Il Mulino, 2012)



Non è il solito libro di self-help e nemmeno un bigino per cuori infranti il libro seminale di Donata Francescato, arrivato alle terza edizione a vent’anni esatti dal suo esordio in libreria. La studiosa, una psicologa di chiara fama, prende da subito il toro per le corna smontando fin dalle prime pagine, grazie al supporto di una bibliografia ricchissima (ma purtroppo non raccolta alla fine del volume), l’idea che l’amore romantico sia di per sé qualcosa di positivo. Al contrario, ammonisce la Francescato facendo leva sul sociologo Slater, l’amore romantico è per così dire sponsorizzato dall’etica del consumo: la richiesta di qualità in amore è alla base dell’adozione di un meccanismo di continua richiesta di novità che si applica anche all’amore. Sicché il passaggio dalla rottura dei matrimoni “per colpa” a quella “per insoddisfazione”, congiuntamente con l’influenza della giurisprudenza, del femminismo e della maggiore autonomia femminile, ha determinato un impressionante aumento delle separazioni.
I concetti chiave sui quali si impernia questo appassionante libro – costruito in buona parte a ridosso delle 610 interviste in profondità che l’autrice e la sua squadra hanno rivolto a persone separate – sono quelli di amore come antidoto, la ricerca narcisistica di risarcimento alle frustrazioni dell’io bambino e il conseguente ingaggio di relazioni come compensazione della bassa autostima, i copioni di vita che ci inducono a ricalcare il modello genitoriale, differenziazione e individuazione nella coppia, intimità e indipendenza.
Con uno stile asciutto, scorrevole, ricchissimo di testimonianze, l’autrice si muove con agilità tra la psicologia del profondo e le molte discipline che si sono occupate del problema delle separazioni, fornendo prove, analisi, suggerimenti che rendono questo libro un’opera di valore apicale nel suo genere.
Non aggiungono molto le due postfazioni (quella del 2002 e quella del 2012) e colpisce, unico neo del volume, la gran quantità di refusi riscontrata in un prodotto di un editore di razza come Il Mulino. Su tutti, “a loro”, scritto spessissimo “alloro”, quasi che nella riproposizione del testo fosse stato adottato uno strumento di acquisizione automatica.

mercoledì 29 agosto 2012

Enrico Pugliese - L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (Il Mulino, 2006)



Da Paese così a lungo di emigranti, l’Italia si sta lentamente trasformando in un paese di immigrati, nonostante i primi – a dispetto di quanto ci viene propinato dai giornali, dai media e da certi esagitati xenofobi – continuino a superare i secondi. Il libro di Pugliese, che oltre a occuparsi di sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma è anche una delle firme de Il Manifesto, ripercorre, cifre alla mano, questa lunga storia, mostrandone sfaccettature, implicazioni sociali, etiche, lavorative, demografiche. Nella prima parte l’attenzione è focalizzata più su un quadro storico, al centro del quale si collocano le due grandi migrazioni che hanno visto protagonisti gli italiani: quella a cavallo tra ottocento e novecento, soprattutto verso le Americhe, e quella dell’immediato dopoguerra, quando Belgio, Germania e Svizzera sono diventate le mete più frequenti. La seconda parte del libro si concentra invece maggiormente sull’attualità e quindi sul problema dell’immigrazione, che nel nostro Paese si è cominciato ad avvertire con l’arrivo dei tunisini nella seconda metà degli anni ’70, con il 1975 a fare da vero e proprio spartiacque.
Il testo è indubbiamente documentato, le cifre non mancano così come i nei. Il primo di questi risiede in uno stile tutt’altro che accattivante, ulteriormente appesantito dalla continua ripetizione dei concetti. Il secondo problema del libro è più tecnico: a dispetto del consistente numero di dati e tabelle, all’autore manca qualsiasi sottigliezza metodologica, fatto evidentissimo quando il fenomeno migratorio non viene mai posto in relazione con l’effetto inerziale della decrescita demografica, per cui i dati che ne risulterebbero avrebbero tutt’altra incidenza.

venerdì 24 agosto 2012

Henri Margaron - Le stagioni degli dei. Storia medica e sociale delle droghe (Raffaello Cortina, 2001)



Il libro di Margaron, direttore del dipartimento delle dipendenze tossicologiche di una ASL livornese, è indubbiamente tanto documentato quanto appassionato. In esso viene ripercorso fin dagli albori – partendo addirittura da un confronto con le altre specie animali – l’inguaribile bisogno dell’uomo di “staccare” dalla realtà attraverso l’assunzione delle cosiddette droghe. È una storia lunghissima dalla quale l’autore lascia emergere soprattutto la precarietà del confine tra le proprietà inebrianti delle droghe e quelle curative, mostrando come – per citare le più note – le piante di papavero, canapa e vite siano andate incontro a reazioni spesso opposte, ora viste come panacee, ora come pericolo verso il quale ingaggiare battaglie all’ultimo codice. L’itinerario, data anche la mole documentaria, è tortuoso, e ha visto oscillare il pendolo dell’ammissibilità tra la piena approvazione sociale e la pena di morte (come nel caso del tabacco, il cui fumo, col cristianesimo, non poteva che essere associato a Satana). Stimoli e curiosità non mancano, ma l’autore incespica ogni tanto in un’ostentazione di erudizione talmente compiaciuta da porsi come ostacolo al flusso del discorso, al punto da lasciare avvertire in diversi momenti la precarietà del filo argomentativo. Più storia della medicina – con incursioni nell’antropologia culturale, nella psicologia e nelle neuroscienze – che storia delle droghe in senso stretto (per un confronto si veda l’ottimo saggio di Escohotado, Piccola storia delle droghe), l’esauriente libro di Margaron, che adotta un punto di vista tutt’altro che convenzionale, trova nell’eccessivo nozionismo e nelle precisazioni inutili e compiaciute uno dei suoi pochissimi nei.

domenica 1 gennaio 2012

Loretta Napoleoni - Il contagio (Rizzoli, 2011)



Tra l'instant book e il pamphlet, il saggio dell'economista Loretta Napoleoni è una documentatissima analisi della crisi economica iniziata nel 2008 ma che trova le sue radici almeno dieci anni prima. La posizione è dell'autrice è nettissima: questa classe politica ci ha portati alla rovina ed è tempo che il vento di rivolta che soffia dal sud del Mediterraneo arrivi a contagiare anche il nord.
La drammatica situazione in cui versano i Paesi Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) avrebbe potuto essere contenuta se solo si fosse tenuto conto di come l'Islanda ha gestito il default pilotato e di come l'Argentina sia arrivata alla bancarotta nel 2001: bluff finanziari, mancanza di liquidità, impossibilità di pagare stipendi e pensioni. Nel mondo globalizzato è stato paradossalmente più facile per i paesi magrebini ribellarsi alle èlite attraverso il tam tam dei social media di quanto non sia accaduto nella vecchia Europa, dove i focolai di Londra e le manifestazioni degli Indignados non hanno ancora ottenuto quella mobilitazione che si è vista bei paesi arabi.
La Napoleoni riesce a connettere con ammirevole capacità divulgativa fatti storici e concetti economici, testimonianze e brutali considerazioni politiche, passando con disinvoltura da uno sguardo posato sul mondo intero ai drammi personali dei precari. Per questi spesso la famiglia è l'unico ammortizzatore sociale esistente e se negli ultimi 20 anni sono emigrati 9 milioni di italiani una ragione ci sarà.
L'Italia è vicina alla catastrofe: è il paese col terzo debito pubblico più alto al mondo; è tra i 21 stati al mondo le cui imprese corrompono di più i pubblici ufficiali; ha un impressionante dislivello tra crescita dei salari e PIL, è uno degli stati per i quali l'entrata nell'euro ha facilitato di più lo sperpero del denaro pubblico e per di più è sottomesso a un regime di disinformazione che si è enormemente potenziato a livello globale dopo la caduta del muro di Berlino. Le soluzioni non sono molte: ricambio radicale della classe politica, abbandono del modello neo-liberista, eventuale uscita dall'euro.
Intanto, con lo stratagemma della banca d'affari, l'indebitamento di uno Stato continua a trasformarsi in debito privato, scomparendo dai bilanci statali e gli stati stessi dell'UE falsificano imperterriti i bilanci pubblici mentre i potenti della terra si dilettano in guerre interessate che hanno prodotto, tra l'altro, un incremento del prezzo del petrolio che se prima dell'11 settembre stava intorno ai 18 dollari a barile, adesso è arrivato tra i 100 e i 140 dollari.