Se esiste un caso in cui la titolazione corrisponde più che
mai ai contenuti e alla tesi sostenuta nel libro, è proprio quello di questo
saggio scritto da Francesco Erbani, che da anni lavora per la redazione
culturale de La Rapubblica.
Leggendo le quasi 200 pagine del libro scritto da questo
informatissimo giornalista ci si trova davanti alla prova schiacciante di come
Roma sia passata dall’essere l’emblema della rappresentanza istituzionale (in
quanto capitale d’Italia, sebbene il sacco di Roma sia cominciato proprio a
partire dalla breccia di Porta Pia), all’essere la città dell’affarismo più
losco e bieco. Una situazione che, con l’aumentare dell’indebitamento delle
casse comunali, ha progressivamente e inesorabilmente messo la città nelle mani
dei palazzinari. I nomi che tornano nel documentatissimo volume di Erbani sono
sempre gli stessi: Caltagirone, Toti, Mezzaroma, Ligresti. Il meccanismo è
sempre il medesimo: le amministrazioni comunali sperperano sfacciatamente
denaro pubblico (il caso Alemanno legato allo scandalo ATAC è paradigmatico) e
poi non hanno i soldi per gestire le opere pubbliche. Allora si fanno avanti i
privati, palazzinari senza scrupoli ai quali, in cambio di qualche milioncino
di euro, vengono concesse metrature sempre più ampie per costruire alloggi che
sono il vero paradosso di questa città. Ne è conseguito che l’urbe si è espansa
a dismisura, al punto che a segnalarne lo skyline, per chi arriva da Nord, non
sono più i palazzi di Fidene e Castel Giubileo, come è stato per lunghissimo
tempo, bensì quelli posticci e dai nomi inequivocabili di Porta di Roma, dati
in pasto ai costruttori di mega centri commerciali (dove ci sono Ikea e Leroy
Merlin esiste persino una piazza privata!!) in barba a qualsiasi piano
regolatore. Il che, mentre si continua a parlare di housing sociale (che nella
media europea copre il 15%, con punte del 30 in Germania, mentre da noi arriva
soltanto al 6%), ossia «di una via intermedia fra la casa popolare […] e la
casa a libero mercato» (p. 67), produce un enorme paradosso: crescono le case e
aumentano le persone senza casa, con una bolla immobiliare che assomiglia
sempre più a quella che ha provocato «la più acuta e lunga crisi in epoca
capitalista e che, dagli Stati Uniti alla Spagna, è stata generata proprio da
un eccesso di offerta immobiliare rispetto alla domanda» (p.40). Così a Roma
spetta una serie di tristi primati: quello di essere stata, nell’ultimo
decennio, la città con il maggior tasso di crescita dello stock edilizio in
Italia (1,4%, il doppio di quello di Milano); quella con il maggior numero di
veicoli pro capite (978 veicoli a motore ogni 1000 abitanti, compresi nel
calcolo i neonati e gli ultranovantenni…); la capitale europea con la più corta
rete metropolitana più una serie di altri record più o meno gravi che rendono
sempre meno appetibile la vita nella città eterna.
All’abuso edilizio di una città nella quale, non potendo più
stampare la lira, «stampiamo metri cubi» (p. 43) e congestionata dal traffico
si aggiungono tutte le storture delle amministrazioni che si sono avvicendate
negli anni e che soltanto sotto la gestione di Nathan, Argan e Petroselli hanno
conosciuto momenti virtuosi: progetti come quello delle 18 centralità, ossia 18
città nella città (tra Porta di Roma, Ponte di Nona, Castellaccio, Magliana),
nei quali smistare ministeri e uffici pubblici (qualcosa è già stato avviato
nella zona dell’Eur-Torrino) senza preoccuparsi minimamente di creare una rete
adeguata di servizi intorno, in modo da far respirare un po’ il centro, che
continua a vedere un continuo deflusso degli autoctoni e un corrispondente
afflusso di auto: basti pensare che «intorno a via Veneto abitano non più di 4
mila persone; ce n’erano 16 mila nel 1951» (p.150), con gli immigrati (a Roma
sono circa il 9% della popolazione) a occupare alloggi malridotti e residenze
assistenziali o di fortuna (basti pensare alla Caritas, presso la stazione
Termini, alla zona di Piazza Vittorio Emanuele II o alla comunità di S.Egidio,
sita a Trastevere).
Di questa valanga di cemento gettato sulla capitale, una
valanga che ha finito per divorare gran parte dell’agro laziale, è largamente
corresponsabile la Protezione Civile, che ha reso possibile la gestione di un
sistema «che da L’Aquila alla Maddalena, passando per i mondiali [di nuoto] del
2009 e per le opere dei 150 anni dall’Unità, controllava appalti e
commissionava lavori in un vortice di corruzioni» (p.46). Un fenomeno che ha
reso possibile favorire i soliti nomi e assegnare loro spazi edificabili sempre
più ampi, grazie anche a meccanismi complessi come quello della compensazione.
In sostanza si tratta di questo: il Comune individua un’area e dice che lì è
necessario riservarla a un parco o allestirvi servizi. Ma se in quel’area c’è
qualche proprietario, il Comune non può espropriarlo. Allora che fa? Gli offre
qualcos’altro, magari un po’ più periferico, ma più grande. Ma se l’area che il
comune vuole gestire fosse stata edificabile? E se era dichiarata non
edificabile in una data epoca ma edificabile in una successiva? Il principio
diventa retroattivo? La questione giuridica è spinosa ma nonostante ciò è stata
spesso risolta con generose concessioni, “compensazioni”, appunto, ai
proprietari originali. Che hanno continuato a costruire in periferia.
Quella che Erbani racconta è dunque la storia - ricca di
testimonianze raccolte di prima mano, documenti, analisi acute – di quanto un
lettore mediamente attento può trovare seguendo nel tempo la cronaca locale
capitolina. Una storia di speculazioni a gogò, smantellamento del territorio,
condoni edilizi elargiti con la massima disponibilità, periferie senza servizi,
brutte, degradate (Tor Bella Monaca, Laurentino 38, Corviale (i quartieri di
edilizia pubblica sorti fra gli anni ’70 e ’80), senza mezzi di trasporto
pubblici, senza veri luoghi di raduno, non-luoghi. Il tutto raccontato con il
costante contrappunto di chi questa degenerazione l’aveva avvistata da tempo,
gente come Antonio Cederna e Italo Insolera.
Roma: il tramonto della città pubblica è dunque un libro che
può interessare non soltanto che nella capitale ci vive, ma anche chi volesse
farsi un’idea dell’affarismo palazzinaro all’italiana, che qui come altrove ha
trovato nella classe politica un complice senza scrupoli. Alla faccia dei
cittadini.