venerdì 22 febbraio 2013

Stefania leone - Stili di vita. Un approccio multidimensionale (Aracne, 2005)



Libro rivolto agli specialisti del settore, il testo della Leone è un interessante tentativo di proporre una lettura dei consumi in due contesti diversi (i lettori di quotidiani e i consumatori di mozzarella di bufala) seguendo lo stesso modello. Modello che si incardina, come suggerisce il sottotitolo, su tre direttrici: i profili valoriali e comportamentali; le motivazioni d’uso e le caratteristiche desiderate del prodotto. Si sarà già capito che si tratta di un testo che fa il gioco degli esperti di marketing (le conclusioni, in questo senso, non lasciano dubbi) e che riconduce il concetto di stile di vita sostanzialmente a quello di stile di consumo.
Il modello analitico nei due casi presentati è lo stesso: analisi fattoriale e clusterizzazione. Lascia qualche dubbio l’esiguità del campione in entrambe le ricerche.


mercoledì 20 febbraio 2013

Maria Paola Faggiano - Stile di vita e partecipazione sociale giovanile. Il circolo virtuoso teoria-ricerca-teoria (Franco Angeli, 2007)





Testo per specialisti (gli altri si astengano), il lavoro di Maria Paola Faggiano è una documentata e rigorosa analisi che ha consentito all’autrice di mostrare come si possa pervenire a una definizione operativa del concetto di stile di vita, i cui confini sono quanto mai porosi, attraverso una serrata disamina della letteratura metodologico-empirica che si occupa dell’argomento.
A chi è interessato al tema degli stili di vita, che personalmente non considero altro che il grimaldello intellettualizzato per accedere ai diversi segmenti di consumatori, il libro tornerà senz’altro utile. Il lettore motivato va però avvertito che si troverà di fronte a liste interminabili, definizioni che rasentano la pedanteria, note in corpo Cossutta: il tutto a sostegno del progetto, ambizioso e riuscito, di mettere in relazione biunivoca teoria e ricerca. Con la regia, palpabilissima nello stile argomentativo e nel succedersi dei paragrafi, di Stella Agnoli.

sabato 9 febbraio 2013

Paolo Sollier con Paolo La Bua - Spogliatoio (Kaos, 2008)





Calci e sputi e colpi di testa, le “riflessioni autobiografiche di un calciatore per caso” fu il libro fondamentale della mia adolescenza. A scriverlo fu Paolo Sollier, calciatore del Perugia per una sola stagione in serie A con la squadra umbra, per poi fare le valigie, destinazione Rimini. Quel libro, al di là della prosa accattivante che mai ti sogneresti di trovare in un mezzo divo della pedata, conteneva riflessioni a tutto campo sul calcio, certo, ma anche sull’amicizia, l’amore, il sesso, i viaggi, il cameratismo tra compagni e, forse più di tutti, la politica.
7 lustri più tardi sono passato a leggere l’opera seconda di Paolo Sollier, che, con molti capelli in meno ma lo stesso spirito barricadero di allora, è da anni transitato al ruolo di allenatore di squadre giovanili in promozione. Ho scoperto così di avere percorso con uno dei miti della mia adolescenza una sorta di cammino parallelo, come se certi valori – la furia iconoclasta con cui si dirige a testa bassa contro le convenzioni sociali più viete e la libertà da certi modelli posticci – fossero stati scritti nel suo, come nel mio, DNA.
Il libro è redatto sotto forma di intervista, con qualche foto d’archivio a cadenzare la scansione dei capitoli, nella quale Sollier, partendo dal calcio, ancora una volta si esprime con invidiabile profondità e indipendenza di pensiero, sciorina aneddoti divertentissimi, inventa trovate linguistiche sempre originali (sentite questa: quando parla di un campo di calcio nel quale andava a giocare quando era al Cinzano scrive che «ci sembrava di bestemmiarne la perfezione stuprandolo di tacchetti»).
Da queste pagine emerge chiaramente il disagio per un calcio ormai diventato business a tutti gli effetti, nel quale le famiglie investono sui figli fin da quando sono piccoli sperando di trasformarli in re Mida miniaturizzati: tutto il contrario di quanto accadeva fino agli anni sessanta e settanta, quando per lo più si diventava giocatori per caso se qualche talent scout passava a vederti giocare all’oratorio. Sarà per questo che il mio amico (amico?) Marco Ginesi, che non ha nulla da invidiare a certi presunti assi della serie A, ha fatto il commercialista anziché il calciatore: gli è mancato l’incontro giusto.
Gli anni di Sollier professionista del calcio giocato erano anche gli anni in cui una squadra di provincia ben gestita poteva permettersi di arrivare ai primi posti in classifica: accadde al Bologna, al Cagliari, ma anche al Lanerossi Vicenza e allo stesso Perugia, un paio di stagioni dopo la cessione di Sollier. Altro che i 17 anni di fila durante i quali lo scudetto è andato solo alle "imprese" Milan e Juventus (con le uniche eccezioni di Lazio e Roma, vincenti nell’anno in cui sono state titolate in borsa…). E poi il calcio non era ancora stato fagocitato dalla televisioni, i calciatori non erano contagiati dal divismo, la legge Bosman era ancora di là da venire e i numeri sulla maglie indicavano il ruolo e non le fissazioni cabalistiche dei calciatori: altro che il numero 45 di Balotelli!
In Spogliatoio si parla anche di molto altro: dell'avventura di Sollier sulle frequenze radiofoniche di Radio Rosa Giovanna, a Rimini, della sua brevissima esperienza con l’LSD, in un’epoca in cui la militanza politica non di rado si coniugava con quella delle sostanze psicotrope, di come l’appartenenza politica a destra venga spesso coltivata in curva e non viceversa, di quando prima Michele Placido e poi Gianni Amelio avrebbero voluto trarre un film da Calci e sputi…, dell’educazione libertaria e paritaria ricevuta con congruo anticipo dai genitori, quando ancora durante il ’68 vigeva un certo machismo per cui “se non la davi via” venivi tacciata di frigidità, della sua attività di libraio, dell’amore per i viaggi, la musica e la montagna, della nazionale scrittori, dove ha giocato e gioca con Baricco e Carlo D’Amicis, dell’amicizia con Gianmaria Testa (guardatevi questo video).
Il ritratto, dunque, di un uomo libero, autarchico, indipendente, miscredente, che non si è mai sposato né ha mai voluto avere figli, che non ha mai indossato la cravatta e che da quarant’anni non va a un matrimonio. Uno che, come dice lui stesso, si è perso tante volte, ma alla fine ha sempre ritrovato la strada.

venerdì 8 febbraio 2013

Giampaolo Fabris - La società post-crescita (Egea, 2010)





Mi ero accostato a questo ponderoso tomo di Fabris tratto in inganno dal sottotitolo: “consumi e stili di vita”. Volevo leggerlo per poi eventualmente considerare l’ipotesi di proporlo come testo d’esame ai miei studenti. Di “stlili di vita” neppure l’ombra. Mi sono imbattuto invece nell’ennesimo sproloquio logorroico di questo accademico col papillon (facile accostarlo a Roberto Gervaso) che per pagine e pagine ci avverte: i baccanali del consumo di massa sono finiti ma, al tempo stesso, non è il caso di accostarsi a un consumerismo pauperista à la Latouche, bensì occorre imboccare una terza via. Quale sia, questa terza via, non sono riuscito a capirlo dopo le oltre 400 pagine di pura uggia. Sì, certo, si fa riferimento ai gruppi di acquisto solidale, al consumatore scafato e responsabile che acquista su ebay e cerca il chilometro zero, all’eclissarsi della falsa equivalenza tra ben-avere e ben-essere, alla customer satisfaction. Il tutto è però imbrigliato in pagine e pagine di concetti ridondanti, di virtuosismi linguistici, di acrobazie concettuali posticce (insopportabili quelle in cui sembra la dimensione esplicativa a servizio della trovata linguistica e non viceversa, come nel caso della tipologia consumato-re, consum-attore, consum-autore, con-sumatore) dalle quali trabocca l’ego incontenibile da vecchio trombone della cattedra che a ogni capitolo ci ricorda le tante occasioni in cui è stato a contatto con “quelli che contano” e che non rinuncia a vezzi come quello di chiamare Petrini, quello di Slow-Food, “Carlin”, così, confidenzialmente, come se il lettore stesse lì ad assistere a un pranzo tra vecchie cariatidi della sinistra più salottiera.
Dispiace scrivere tutto questo, perché il professor Fabris è morto nel 2010 e ci ha lasciato contributi significativi sul fenomeno del consumo, ma a ogni libro sembra volerci ricordare il suo straripante amore per se stesso, che lo fa sembrare tantissimo l’Albertazzi della sociologia.