lunedì 8 aprile 2013

Loretta Napoleoni - Democrazia vendesi (Rizzoli, 2013)



L’enorme crisi finanziaria cominciata nel 2008 non soltanto sta allargando la forbice che divide i pochissimi ricchi dai tantissimi poveri, ma sta anche producendo lo stesso divario all’interno dei Paesi della Unione Europea, con Germania e Francia (ma persino l’Olanda) a dettare legge su quelli mediterranei, Italia, Spagna e Grecia in primis. L’economista Loretta Napoleoni argomenta dettagliatamente come la crisi del debito pubblico che viene assorbita, “comprata” dai paesi con le economie più robuste, si stia trasformando sempre di più in uno scambio impari nel quale la posta in gioco non è soltanto il denaro, ma la stessa democrazia, con la conseguenza che le decisioni prese a Berlino e Parigi vengono imposte ai governi delle periferia europea e i sacrifici ai loro cittadini. I quali non ce la fanno più. E si ammazzano. Checché ne possa dire il sociologo Marzio Barbagli (clamoroso per faziosità e alterazione del dato una sua intervista comparsa su La Repubblica), l’aumento dei suicidi dovuto alla crisi economica è talmente in ascesa «che neppure durante l’occupazione nazista in Europa […] l’indice dei suicidi è stato così alto» (p.24). L’aumento del tasso di suicidi, dunque, come sintomo di un malessere sociale diffuso ma anche indotto dalle stramberie delle politiche comunitarie. Si prenda il caso della Grecia: dopo l’incidente della Prestige (la petroliera che rovesciò greggio in mare dopo essersi incagliata nelle coste galiziane), nel 2002, e dopo che la Thatcher aveva iniziato l’opera di smantellamento dei grandi cantieri navali sui quali era prosperato l’impero britannico, vista di buon occhio dalla nascente Unione Europea intenta a smembrare l’industria pesante, agli armatori greci venne imposta, come agli altri del resto, una norma pesantissima. Nonostante ancora oggi essi siano i proprietari «del 19% della flotta mercantile mondiale» (p.56), per loro si fece obbligo del doppio scafo allo scopo di porre immediatamente rimedio ad altri eventuali disastri ecologici: la spesa per sostenere un’impresa del genere è enorme e l’industria navale greca, vero motore dell’economia di Atene, ebbe un tracollo, lasciando campo libero alle economie orientali presso le quali i vincoli normativi sono meno rigidi. Se dunque la crisi dei paesi delle periferie, come documenta il caso greco, ha un’origine connessa all’economia reale, anche il contributo dell’economia finanziaria non è da meno. Tutto ha inizio con la fine degli accordi di Bretton-Woods, voluta da Nixon nel 1971: gli accordi, cioè, che sancivano la convertibilità del dollaro con l’oro. Questo significa che quei paesi che, come l’Italia, disponevano di cospicui giacimenti aurei, vennero a trovarsi improvvisamente sprovvisti di quel potenziale finanziario al quale avrebbero potuto fare appello nei periodi di vacche magre. Ecco allora che per corre ai ripari l’anno dopo venne lanciato il primo esperimento di Unione Europea, uno stratagemma che pochi ricordano: il serpente monetario. La dizione, rammenta la Napoleoni (p. 65) - «deriva dal fatto che i tassi di cambio delle monete europee potevano fluttuare soltanto all’interno di una banda, un tunnel, la cui ampiezza era 2,5% in positivo e in negativo», che, tradotto, significava per esempio che il tasso lira-marco poteva apprezzarsi o deprezzarsi non oltre il 2,5%. Le prove generali, nemmeno a dirlo, andarono male: i paesi entravano e uscivano a piacimento dal serpentone monetario fino a quando questo non cessò di esistere nel 1979. Anche il vecchio trucco di stampare nuova moneta, aumentando al contempo l’inflazione ma contenendo la disoccupazione, cominciò a vacillare, fino a quando, con l’adesione a Eurolandia, le singole nazioni non furono del tutto espropriate della facoltà di stampare moneta, compensando in questo modo gli squilibri della bilancia commerciale.
Come l’Italia sia finita in mano a strozzini come la Merkel è una storia che parte da quei presupposti, passa largamente per le spese allegre di tutti gli anni ?80, che gonfiarono a dismisura il debito pubblico – non tenendo al tempo stesso conto, e questo la Napoleoni non lo dice, del brusco cambiamento demografico subito dalla popolazione, che avrebbe cominciato ad avere pesantissime ripercussioni nella gestione del sistema pensionistico – e arriva alla farsa della vendita del patrimonio nazionale: prima delle trovate folli di Tremonti, IRI, ENI, EFIM e SIP vengono vendute ai privati: il liberismo senza scrupoli della Thatcher e di Reagan arriva anche in casa nostra. L’inutilità di queste manovre, che non fanno altro che produrre debito sul debito – esattamente come nel caso degli usurai che pretendono gli interessi sugli interessi – non ha ottenuto altro effetto che non quello di produrre conseguenze sempre più disastrose e salassi sempre alla stessa categoria, quella dei lavoratori dipendenti, meglio se pubblici. E infatti durante il governo Monti – uno dei presidenti del consiglio peggiori e più cinici dell’intera storia repubblicana – «il debito è salito dal 120 al 126% del PIL» (p.73). Quella che l’autrice chiama “la Caporetto finanziaria” sarebbe arrivata pochi anni dopo quelle vendite sciagurate del patrimonio pubblico in nome delle liberalizzazioni e del risanamento del debito pubblico e precisamente nel 1992, quando il governo Amato varò una legge finanziaria che picconava pesantemente l’intero assetto del welfare: pensioni, ticket sanitari, tassa sul medico di famiglia, blocco degli stupendi e delle assunzioni nel pubblico impiego, prelievo forzoso dai conti correnti. Al tempo stesso Telecom, Eni ed Enel vennero privatizzate totalmente e si diede inizio anche al processo di privatizzazione della banche dello Stato. La cronistoria di quell’annus horribilis, dunque, ci fa capire come la perdita della sovranità monetaria non solo non abbia risolto il problema del debito pubblico, ma abbia al tempo stesso rafforzato la posizione dei creditori, cioè le Banche Centrali Europee. «Per uno Stato – chiarisce la Napoleoni (p. 88) – perdere la capacità di agire sulla leva monetaria è come comprare una macchina pregando che qualcuno ogni tanto ci metta la benzina, al prezzo che lui stabilisce e a suo insindacabile giudizio». Come può dunque sorprendere che in questo valzer di asservimento alle Banche Centrali gli uomini che si alternano sulle poltrone che contano siano sempre gli stessi: Draghi oggi è presidente della BCE, ma è stato vicepresidente della Goldman Sachs, in un evidentissimo conflitto di ruoli; ma non c’è solo Draghi. Ci sono Grilli, Ciampi, Prodi e Monti: tutta gente implicata, a vario titolo, sempre con gli stessi soggetti: Bilderberg e Goldman  Sachs. Come tutto questo sia potuto accadere senza che i popoli mediterranei abbiano imbracciato i forconi, l’autrice prova a spiegarcelo con una tesi audace e suggestiva: una sorta di fatalismo «che sembra accomunare tutti i paesi della periferia colonizzati dal ricco e protestante Nord, tutti cattolicissimi» (p.97: la Napoleoni sta parlando dei cosiddetti PIIGS). Sicché i paesi indebitati si sono lasciati spremere sempre con la stessa ricetta: aumento delle tasse, vendita del patrimonio pubblico e riduzione della spesa pubblica. Il problema è che l’aumento della tasse contrae l’economia, col risultato di innescare un circolo vizioso che porta a minori consumi e quindi produce meno PIL. Si potrebbero spremere i portafogli dei più ricchi, ma questi sono anche quelli meglio collegati con la casta politica e tanto basta a spiegare perché in Italia nessuno abbia mai voluto fare una vera patrimoniale. Restare dentro l’area dell’euro, dunque, sembra non ci abbia giovato granché fin dall’inizio. Quando, cioè, di fatto i prezzi assunsero l’equivalenza tra le mille lire e l’euro, mentre il secondo era circa la metà delle prime. La colpa non fu solo dei soliti commercianti truffaldini, ma dello Stato stesso che, per esempio, stabilì che la giocata minima del Lotto passasse da mille lire a un euro. In termini di potere d’acquisto – ricorda puntualmente l’autrice – «la perdita complessiva, tra il 2002 e il 2012, è stata valutata nel’ordine del 39,7%» (p. 147). Cosa fare, dunque? Continuare incessantemente a pagare l’interesse sul debito per generare altro debito? Uscire dall’euro? Suicidarsi in massa? La Napoleoni, pur adombrando la possibilità dell’uscita dall’euro come un’ipotesi meno peregrina di quanto si possa pensare e con precedenti storici assimilabili, propone una soluzione ibrida: l’introduzione dello scec, una percentuale sul prezzo, e non una moneta, a circolazione ridotta, a diffusione territoriale, già adottata in alcune zone, e che permetterebbe la restituzione progressiva del debito e, con essa, la fine di questa balorda svendita della nostra democrazia agli stati plutocrati del centro Europa.
La scrittura sempre fluida e avvincente, l’ampia mole di documentazione, i tecnicismi spiegati anche ai profani e molte intuizioni affascinanti, tra cui quella che enfatizza il nesso tra colonialismo e capitalismo mostrando il rapporto tra centro e periferia europea come una nuova e più subdola forma di colonialismo, fanno di questa specie di instant book un libro da non perdere, anche a costo di affrontare gli scogli di un linguaggio inevitabilmente tecnico ma sempre chiaro.

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