venerdì 7 agosto 2015

Giuseppe Antonelli: Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 2014)



Il titolo è una provocazione tutt’altro che priva di senso. In ossequio a un’immagine “austera e monumentale attribuita ai grandi personaggi del passato”, ci è quasi impossibile credere che Leopardi, nella sua corrispondenza, facesse ricorso così frequente a un turpiloquio composto da parole con la doppia zeta. È solo una delle tante sorprese che Giuseppe Antonelli, docente di Storia della lingua italiana all’università di Cassino nonché conduttore della fortunata trasmissione radiofonica La lingua batte, propone al lettore in questa agilissima antologia di riflessioni sulla lingua italiana e sui falsi miti che la affliggono. A cominciare dall’idea (infondata, sostiene l’autore) che l’italiano sia alla deriva e a proseguire con una divertentissima e sempre ottimamente documentata rassegna di osservazioni e curiosità che testimoniano l’andamento ondivago della lingua nazionale, la sua metamorfosi continua, l’impossibilità di ingabbiarla all’interno di regole fissate una volta per tutte. In questa raccolta gustosissima di aneddoti e riflessioni che poggiano con disinvoltura tanto su elementi colti quanto sulla cultura pop che tanto piace all’autore apprendiamo dunque che fino a tutti gli anni ’70 le grammatiche vietavano l’uso di “lui” e “lei” come soggetto, preferendo ad essi “egli” ed “ella”, termini che oggi appaiono desueti soprattutto nel parlato. Così come veniamo a sapere che alcune forme del congiuntivo come “dichi” e “venghi” non sono solo il frutto della comicità del ragionier Fantozzi, ma forme usate già dai padri della lingua (vadi era forma leopardiana, facci dantesca, venghi boccacciana). Il tono leggero ma mai superficiale torna a farsi accademico nelle occasioni in cui Antonelli chiosa a modo suo alcuni punti nodali come per esempio quello della punteggiatura, rispetto al quale ci ricorda che si è da tempo diffusa una “concezione ingenua della punteggiatura. Quella per cui l’interpunzione servirebbe a riproporre le pause del parlato e non – come invece è – a segnalare i legami tra le varie parti di un testo”. Ma allora: queste regole esistono o no? Il filo rosso del volume pubblicato da Mondadori contrappone costantemente la ragionevolezza delle regole con la necessità di non inamidare la lingua, lasciandola percorrere dalle suggestioni che provengono dalla società, dai passaggi delle mode (dal cioè al piuttosto che usato con funzione disgiuntiva), dalla radicale metamorfosi della funzione dei dialetti (oggi definitivamente sdoganati e non più indizio di inferiorità culturale), dall’influenza di neologismi e tecnologia. E, a proposito di tecnologia, alcune delle pagine più interessanti e divertenti sono quelle nelle quali si parla degli errori dei correttori ortografici, che finiscono inevitabilmente per segnalare il problema di chi debba correggere il correttore. Né meno divertenti sono le pagine in cui l’autore si fa beffa delle ridicolaggini di un certo purismo bacchettone – che nel Codice di autodisciplina della televisione vietò parole come vizio, membro e seno, persino in espressioni come in seno all’assemblea – o del fascismo, che nel suo tentativo di italianizzare parole come cocktail (diventato “arlecchino”) o sauté di cozze (trasformato in “sfritto”) venne turlupinato da Tullio De Mauro, il quale ipotizzò che la locuzione “Per Benito” non fosse altro che il participio passato del verbo perbenire (io perbenisco, tu perbenisci, ecc).
Se i contenuti sono costantemente frizzanti, la prosa non è da meno. Mostrando un gusto inarginabile per il calembour, l’autore infila nella sua scrittura sempre chiarissima una serie di invenzioni linguistiche frutto di una formidabile creatività: per questa strada, le regole della punteggiatura diventano un “solfeggio in quattro quarti usato da alcune grammatiche”, le abbreviazioni dello scritto – che a noi paiono un’invenzione resa necessaria da sms e Twitter ma che invece erano già diffusissime nell’Ottocento per poter risparmiare sull’invio della missiva – potevano essere accompagnate da un testo a “interlinea zero” (il riferimento è un altro, ma non importa). Con inevitabile passaggio dall’epistola all’e-pistola, con la quale si possono sparare colpi a suon d’acronimato (t.v.b.), magari in barba al solito piatto del giorno (le linguine alla norma) e con un occhio (anzi due) sull’e-taliano. E se poi qualche congiuntivo vi va di traverso, pazienza. Tanto, si sa, il congiuntivo è come il colesterolo (è sempre Antonelli che scrive): “c’è quello buono e quello cattivo”. Un’effervescenza che fremita a ogni pagina anche attraverso analogie assai creative, come quando l’autore, a proposito dei tormentoni, indica le canzoni come “una specie di carbonio 14 dei tormentoni linguistici”.
Unico neo (a parte un uso poco sorvegliato del verbo chiedere in luogo di domandare, distinzione che il linguista dovrebbe conoscere a menadito) è il metodo: torna spesso l’impressione che nel suo indomabile ottimismo Antonelli finisca per ridurre le ipotesi (linguistiche) a teorema, come quando opera confronti tra epoche diverse per dimostrare che, per esempio, non è vero che prima si scriveva bene e adesso no. Il metodologo si aspetterebbe un confronto a campione su testi di origine diversa, laddove l’autore prende tre esempi da qui e tre da là e dice: vedete? Sono uguali!
Robetta in confronto agli stimoli che un libro come questo può fornire anche ai non addetti ai lavori, per i quali il sottotitolo non potrebbe essere più veritiero: “l’italiano come non ve lo hanno mai raccontato". È proprio vero!

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