domenica 9 giugno 2013

Luigi Campiglio - Tredici idee per ragionare di economia (Il Mulino, 2002)





Al neofita che volesse avventurarsi nei meandri della disciplina economica, accostando concetti come quello del saggio marginale di sostituzione, o di arbitraggio, o di tasso di interesse reale, o che magari volesse sapere come avviene il passaggio dai cambi fissi ai cambi reali o cos’è la teoria dei giochi non posso che consigliare l’ottimo saggio del professor Campiglio. Tredici idee attorno alle quali si articolano i concetti principali dell’economia politica (mercati, globalizzazione, prezzi, moneta, inflazione, produttività, ecc.) con un taglio divulgativo mai banale, esempi chiarissimi e continui riferimenti alla concretezza della contemporaneità. Se il saggio ha un neo, è quello della sua data di nascita: la stessa di quella dell’euro, con ciò che questo comporta rispetto alle previsioni che l’autore si lancia a fare in alcune occasioni. Un testo dunque raccomandabile a chiunque abbia anche soltanto voglia di un’efficacissima ripassata dei concetti, le teorie e i problemi che coinvolgono l’economia politica e la politica economica.

martedì 14 maggio 2013

Serge Latouche, Yves Cochet, Jean-Pierre Dupuy, Susan George - Dove va il mondo? Un decennio sull'orlo della catastrofe (Bollati Boringhieri, 2013)





Nel dicembre del 2010 in Francia l’Assemblée Nationale organizzò un convegno sul tema del futuro dell’umanità. Quattro relazioni di quel convegno formano l’ossatura di questo libriccino targato Bollati Boringhieri, che dice pochissimo e non aggiunge quasi nulla ai cultori del catastrofismo.
Sul tappeto ci sono i temi dell’ambiente, della crescita demografica e delle disuguaglianze. Chi già conosca le posizioni espresse nel 1973 dal Club di Roma o abbia letto Il medioevo prossimo venturo di Vacca piuttosto che Entropia di Rifkin non troverà aggiunte sensibili: basterà memorizzare l’informazione che il collasso è previsto già a partire dal 2030. I saggi di Serge Latouche e Susan George si collocano su un livello di divulgazione accettabile. Quelli di Cochet e Dupuy sono puri esercizi di stile che avvilirebbero qualsiasi lettore.

mercoledì 8 maggio 2013

Enzo Caffarelli - Dimmi come ti chiami e ti dirò perché. Storie di nomi e di cognomi (Laterza, 2013)




Da quasi vent’anni Enzo Caffarelli, noto per essere stato il destinatario di una canzone al vetriolo di Venditti (Penna a sfera) quando esercitava come critico musicale, dirige la Rivista italiana di onomastica e insegna presso l’università di Tor Vergata, a Roma. Eppure il suo libro, già a partire dal tono faceto del titolo, non ha nulla della pedanteria accademica né della boria che non di rado inquina la prosa dei cattedratici.
Dimmi come ti chiami e di dirò perché è un viaggio nel mondo dei nomi e dei cognomi italiani (con qualche brevissima sosta all’estero) abbordabile anche dal profano, tanta è la chiarezza espositiva e la brillantezza della prosa. Ricco di riferimenti al cinema, alla musica e alla letteratura, poliedrico in tutte le sue declinazioni, ironico e spiritosissimo, il libro di Caffarelli è tutt’altro che una banale strizzatina d’occhio al lettore. I tecnicismi vengono affrontati con la limpidezza del divulgatore di razza e gli aspetti statistici dell’onomastica risultano sempre commentati adeguatamente nelle loro contenute proporzioni.
Che all’autore le “storie di cognomi” interessino più di quelle dei nomi lo si arguisce dalle proporzioni: ai secondi spettano più o meno la metà delle pagine dei primi. Peccato, perché abbiamo più opportunità di imbatterci in un Francesco che in uno che di cognome faccia Giandinoto. Ciò non toglie che anche il profano venga messo nelle condizioni di capire alcuni meccanismi della formazione o dell’origine dei nomi: così tutti quelli che hanno bertha come suffisso (Alberto, Roberto, ecc.) stanno per “illustre, famoso”; quelli in hardhu (Gerardo, Leonardo, Riccardo) contengono il riferimento a forte, valoroso, duro (si pensi al termine inglese hard). E così via. La ricerca di originalità a tutti i costi, l’influenza dei nomi di personaggi famosi e i contatti sempre più prossimi con altre culture se da una parte hanno portato a un arricchimento del nostro repertorio onomastico, dall’altra hanno avuto anche conseguenze esiziali e ridicole: si pensi alle 67 variazioni di Katia (Katja, Kathya, ecc.), al padre napoletano che ha chiamato il figlio Varenne (già, proprio come il cavallo…) o all’abuso di personaggi televisivi (su tutti, il nome Ridge, dal serial Beautiful). Poi ci sono da dirimere i casi dei nomi che sono sia maschili che femminili (Andrea è il più noto e pochi ricordano che viene dal greco anèr, andròs, maschio…). Lo studioso, a proposito di nomi (ma anche di cognomi) non manca anche di sfatare qualche luogo comune del tutto infondato: non è vero, per esempio, che il repertorio di nomi personali si stia riducendo, così come non è vero che Mario Rossi è la combinazione più diffusa in Italia (il primato spetta infatti a Giuseppe Russo e persino Antonio Esposito precede Mario Rossi). La cosa più interessante riguardo ai nomi, tuttavia, concerne il loro ciclo di diffusione (mediamente tra i 120 e i 140 anni): nomi, cioè, che vanno di moda in alcuni periodi, vengono poi agganciati dalle classi sociali meno elevate, si squalificano, si massificano, vengono avvertiti come poco originali e quindi dimenticati per poi ricomparire con lunghi salti generazionali: Emma, nome oggi diffusissimo tra le bambine (lo precedono soltanto – nell’ordine – Sofia, Giulia, Sara, Martina, Giorgia, Chiara, Aurora e Alice), è sparito per un lunghissimo arco di tempo. Il declino di un nome, quando viene avvertito come troppo diffuso, «può scendere almeno quattro gradini, e sono gradini pesanti» (p. 47). Primo: diventa sinonimo di uomo e donna qualunque (Tizio e Caia hanno seguito proprio questa strada). Secondo: dà origine a voci del lessico, come nel caso di monello, che deriva da Simone. Terzo: viene applicato al mondo della natura, come nella zona del cremonese, dove Caterina è il nome della coccinella. Quarto: i nomi diventano quasi dei tabù, perché riferiti a personaggi d’invenzione, pupazzi, veicoli, eccetera. Basti pensare a Carolina, diffusissimo nell’Ottocento e poi scomparso dopo che la sua estrema popolarità lo aveva fatto associare a una mucca di plastica che veniva regalata a chi comprasse i formaggini Invernizzi. Insomma, il repertorio di analisi, dati e indicazioni di vario tipo è fittissimo: dall’età media di un nome in un preciso momento storico (ogni nome ha un età calcolabile con esattezza e pari alla media dei suoi portatori), a certe stranezze dei maschili dai femminili (e viceversa: oggi Uga e Sergia, da Ugo e Sergio, ci sembrano strani quanto lo potevano sembrare Roberta, Federica e Stefania mezzo secolo fa), alle tautologie (Eugenio Bennato, nome e cognome, vogliono dire la stessa cosa), fino ai suggerimenti sui criteri per dare nomi ai figli.
Altrettanto piene di aneddoti, esempi, dati e analisi sono le sezioni dedicate ai cognomi, dei quali, innanzitutto, si cerca di tracciare una storia. È impossibile stabilire con esattezza – sentenzia lo Caffarelli – quando sono nati esattamente i cognomi. L’abitudine latina di usare il nome delle gentes (Claudia, per esempio, da cui Appio Claudio) era ben diversa da quella che conosciamo oggi, tanto più che nel Medioevo si era completamente estinta e le persone portavano soltanto il nome. Le cose cominciarono a cambiare intorno al XIV-XV secolo: inizialmente appannaggio soltanto delle famiglie altolocate, l’uso del cognome era sostanzialmente «un affare economico e perfino politico» (p.67). Non che fosse mancato qualche caso anche prima, ma è solo tra il Cinque e il Seicento che si cominciarono a diffondere i cognomi in senso moderno. In Italia, poi, dovemmo aspettare addirittura l’istituzione del’anagrafe con l’Unità d’Italia per avere la consacrazione del cognome. Le ragioni di questa innovazione, secondo il linguista, sono sostanzialmente tre: una stabile trasmissione di generazione in generazione; l’immutabilità e la non flessibilità (la forma non cambia di numero e di genere); la non corrispondenza, quanto al significato, con la realtà del portatore: un Grassi non era necessariamente, come in passato, un ciccione e un Vaccaro non è detto che governasse le mucche.
Non che i cognomi nascessero soltanto dagli attributi: a voler cercare una regola, si potrebbe dire che quella più generale che li riguarda ha come riferimento l’inclusione e l’esclusione: si appartiene o non si appartiene a un gruppo. L’origine dei cognomi può essere fatta risalire a 8 criteri diversi: 1) il contatto con un'altra lingua, come per Macaluso (schiavo affrancato, dall’arabo); 2) il nome di un luogo (come per Salerno e Milani); 3) la corrispondenza con un aggettivo relativo a un nome di popolo (Lombardi, Calabrese); 4) cognomi che derivano «dal luogo di residenza o di lavoro interno al centro abitato o sito nei pressi di quelle località» (p. 75), come nel caso di Riva, Piazza, Fontana; 5) i cognomi derivanti da un mestiere o da un titolo onorifico (Ferrari, Nobile); 6) cognomi che derivano da un soprannome legato all’aspetto fisico (Mancini, Moretti); 7) quelli legati a comportamenti e azioni (Bevilacqua, Tagliapietra); 8) infine, quelli imposti ai bambini abbandonati, tra i quali i più noti sono Esposito (a Napoli) e Proietti (a Roma), ma che possono rimandare anche alla religiosità degli istituti d’accoglienza, come nel caso di Sperandio. Quale che sia il criterio, i più diffusi finiscono più per -o (Russo, Esposito, Romano, Colombo, Marino e Greco) che per –i (Rossi, Ferrari, Bianchi e Ricci), al contrario di quanto si pensa comunemente). I fenomeni migratori, poi, hanno contribuito a riscrivere completamente le statistiche: basti pensare che a Brescia Singh è il cognome in assoluto più diffuso, prima di Ferrari, mentre nella stessa città lombarda Kaur è terzo.
La potenza dei cognomi si estrinseca anche nella loro capacità di trasformarsi in parole nuove a servizio del lessico, come nel caso di Carpaccio e Travet.
Tutti questi esempi, dunque,m dovrebbero dare la misura di quanto il libro di Caffarelli si proponga come una commistione gustosissima di ironia (non a caso Totò – che aveva unì’enorme sensibilità linguistica – viene ripetutamente citato) e rigore scientifico, che fa di questo volume un’occasione da non perdere.

martedì 23 aprile 2013

Francesco Erbani - Roma. Il tramonto della città pubblica (2013, Laterza)



Se esiste un caso in cui la titolazione corrisponde più che mai ai contenuti e alla tesi sostenuta nel libro, è proprio quello di questo saggio scritto da Francesco Erbani, che da anni lavora per la redazione culturale de La Rapubblica.
Leggendo le quasi 200 pagine del libro scritto da questo informatissimo giornalista ci si trova davanti alla prova schiacciante di come Roma sia passata dall’essere l’emblema della rappresentanza istituzionale (in quanto capitale d’Italia, sebbene il sacco di Roma sia cominciato proprio a partire dalla breccia di Porta Pia), all’essere la città dell’affarismo più losco e bieco. Una situazione che, con l’aumentare dell’indebitamento delle casse comunali, ha progressivamente e inesorabilmente messo la città nelle mani dei palazzinari. I nomi che tornano nel documentatissimo volume di Erbani sono sempre gli stessi: Caltagirone, Toti, Mezzaroma, Ligresti. Il meccanismo è sempre il medesimo: le amministrazioni comunali sperperano sfacciatamente denaro pubblico (il caso Alemanno legato allo scandalo ATAC è paradigmatico) e poi non hanno i soldi per gestire le opere pubbliche. Allora si fanno avanti i privati, palazzinari senza scrupoli ai quali, in cambio di qualche milioncino di euro, vengono concesse metrature sempre più ampie per costruire alloggi che sono il vero paradosso di questa città. Ne è conseguito che l’urbe si è espansa a dismisura, al punto che a segnalarne lo skyline, per chi arriva da Nord, non sono più i palazzi di Fidene e Castel Giubileo, come è stato per lunghissimo tempo, bensì quelli posticci e dai nomi inequivocabili di Porta di Roma, dati in pasto ai costruttori di mega centri commerciali (dove ci sono Ikea e Leroy Merlin esiste persino una piazza privata!!) in barba a qualsiasi piano regolatore. Il che, mentre si continua a parlare di housing sociale (che nella media europea copre il 15%, con punte del 30 in Germania, mentre da noi arriva soltanto al 6%), ossia «di una via intermedia fra la casa popolare […] e la casa a libero mercato» (p. 67), produce un enorme paradosso: crescono le case e aumentano le persone senza casa, con una bolla immobiliare che assomiglia sempre più a quella che ha provocato «la più acuta e lunga crisi in epoca capitalista e che, dagli Stati Uniti alla Spagna, è stata generata proprio da un eccesso di offerta immobiliare rispetto alla domanda» (p.40). Così a Roma spetta una serie di tristi primati: quello di essere stata, nell’ultimo decennio, la città con il maggior tasso di crescita dello stock edilizio in Italia (1,4%, il doppio di quello di Milano); quella con il maggior numero di veicoli pro capite (978 veicoli a motore ogni 1000 abitanti, compresi nel calcolo i neonati e gli ultranovantenni…); la capitale europea con la più corta rete metropolitana più una serie di altri record più o meno gravi che rendono sempre meno appetibile la vita nella città eterna.
All’abuso edilizio di una città nella quale, non potendo più stampare la lira, «stampiamo metri cubi» (p. 43) e congestionata dal traffico si aggiungono tutte le storture delle amministrazioni che si sono avvicendate negli anni e che soltanto sotto la gestione di Nathan, Argan e Petroselli hanno conosciuto momenti virtuosi: progetti come quello delle 18 centralità, ossia 18 città nella città (tra Porta di Roma, Ponte di Nona, Castellaccio, Magliana), nei quali smistare ministeri e uffici pubblici (qualcosa è già stato avviato nella zona dell’Eur-Torrino) senza preoccuparsi minimamente di creare una rete adeguata di servizi intorno, in modo da far respirare un po’ il centro, che continua a vedere un continuo deflusso degli autoctoni e un corrispondente afflusso di auto: basti pensare che «intorno a via Veneto abitano non più di 4 mila persone; ce n’erano 16 mila nel 1951» (p.150), con gli immigrati (a Roma sono circa il 9% della popolazione) a occupare alloggi malridotti e residenze assistenziali o di fortuna (basti pensare alla Caritas, presso la stazione Termini, alla zona di Piazza Vittorio Emanuele II o alla comunità di S.Egidio, sita a Trastevere).
Di questa valanga di cemento gettato sulla capitale, una valanga che ha finito per divorare gran parte dell’agro laziale, è largamente corresponsabile la Protezione Civile, che ha reso possibile la gestione di un sistema «che da L’Aquila alla Maddalena, passando per i mondiali [di nuoto] del 2009 e per le opere dei 150 anni dall’Unità, controllava appalti e commissionava lavori in un vortice di corruzioni» (p.46). Un fenomeno che ha reso possibile favorire i soliti nomi e assegnare loro spazi edificabili sempre più ampi, grazie anche a meccanismi complessi come quello della compensazione. In sostanza si tratta di questo: il Comune individua un’area e dice che lì è necessario riservarla a un parco o allestirvi servizi. Ma se in quel’area c’è qualche proprietario, il Comune non può espropriarlo. Allora che fa? Gli offre qualcos’altro, magari un po’ più periferico, ma più grande. Ma se l’area che il comune vuole gestire fosse stata edificabile? E se era dichiarata non edificabile in una data epoca ma edificabile in una successiva? Il principio diventa retroattivo? La questione giuridica è spinosa ma nonostante ciò è stata spesso risolta con generose concessioni, “compensazioni”, appunto, ai proprietari originali. Che hanno continuato a costruire in periferia.
Quella che Erbani racconta è dunque la storia - ricca di testimonianze raccolte di prima mano, documenti, analisi acute – di quanto un lettore mediamente attento può trovare seguendo nel tempo la cronaca locale capitolina. Una storia di speculazioni a gogò, smantellamento del territorio, condoni edilizi elargiti con la massima disponibilità, periferie senza servizi, brutte, degradate (Tor Bella Monaca, Laurentino 38, Corviale (i quartieri di edilizia pubblica sorti fra gli anni ’70 e ’80), senza mezzi di trasporto pubblici, senza veri luoghi di raduno, non-luoghi. Il tutto raccontato con il costante contrappunto di chi questa degenerazione l’aveva avvistata da tempo, gente come Antonio Cederna e Italo Insolera.
Roma: il tramonto della città pubblica è dunque un libro che può interessare non soltanto che nella capitale ci vive, ma anche chi volesse farsi un’idea dell’affarismo palazzinaro all’italiana, che qui come altrove ha trovato nella classe politica un complice senza scrupoli. Alla faccia dei cittadini.

lunedì 8 aprile 2013

Loretta Napoleoni - Democrazia vendesi (Rizzoli, 2013)



L’enorme crisi finanziaria cominciata nel 2008 non soltanto sta allargando la forbice che divide i pochissimi ricchi dai tantissimi poveri, ma sta anche producendo lo stesso divario all’interno dei Paesi della Unione Europea, con Germania e Francia (ma persino l’Olanda) a dettare legge su quelli mediterranei, Italia, Spagna e Grecia in primis. L’economista Loretta Napoleoni argomenta dettagliatamente come la crisi del debito pubblico che viene assorbita, “comprata” dai paesi con le economie più robuste, si stia trasformando sempre di più in uno scambio impari nel quale la posta in gioco non è soltanto il denaro, ma la stessa democrazia, con la conseguenza che le decisioni prese a Berlino e Parigi vengono imposte ai governi delle periferia europea e i sacrifici ai loro cittadini. I quali non ce la fanno più. E si ammazzano. Checché ne possa dire il sociologo Marzio Barbagli (clamoroso per faziosità e alterazione del dato una sua intervista comparsa su La Repubblica), l’aumento dei suicidi dovuto alla crisi economica è talmente in ascesa «che neppure durante l’occupazione nazista in Europa […] l’indice dei suicidi è stato così alto» (p.24). L’aumento del tasso di suicidi, dunque, come sintomo di un malessere sociale diffuso ma anche indotto dalle stramberie delle politiche comunitarie. Si prenda il caso della Grecia: dopo l’incidente della Prestige (la petroliera che rovesciò greggio in mare dopo essersi incagliata nelle coste galiziane), nel 2002, e dopo che la Thatcher aveva iniziato l’opera di smantellamento dei grandi cantieri navali sui quali era prosperato l’impero britannico, vista di buon occhio dalla nascente Unione Europea intenta a smembrare l’industria pesante, agli armatori greci venne imposta, come agli altri del resto, una norma pesantissima. Nonostante ancora oggi essi siano i proprietari «del 19% della flotta mercantile mondiale» (p.56), per loro si fece obbligo del doppio scafo allo scopo di porre immediatamente rimedio ad altri eventuali disastri ecologici: la spesa per sostenere un’impresa del genere è enorme e l’industria navale greca, vero motore dell’economia di Atene, ebbe un tracollo, lasciando campo libero alle economie orientali presso le quali i vincoli normativi sono meno rigidi. Se dunque la crisi dei paesi delle periferie, come documenta il caso greco, ha un’origine connessa all’economia reale, anche il contributo dell’economia finanziaria non è da meno. Tutto ha inizio con la fine degli accordi di Bretton-Woods, voluta da Nixon nel 1971: gli accordi, cioè, che sancivano la convertibilità del dollaro con l’oro. Questo significa che quei paesi che, come l’Italia, disponevano di cospicui giacimenti aurei, vennero a trovarsi improvvisamente sprovvisti di quel potenziale finanziario al quale avrebbero potuto fare appello nei periodi di vacche magre. Ecco allora che per corre ai ripari l’anno dopo venne lanciato il primo esperimento di Unione Europea, uno stratagemma che pochi ricordano: il serpente monetario. La dizione, rammenta la Napoleoni (p. 65) - «deriva dal fatto che i tassi di cambio delle monete europee potevano fluttuare soltanto all’interno di una banda, un tunnel, la cui ampiezza era 2,5% in positivo e in negativo», che, tradotto, significava per esempio che il tasso lira-marco poteva apprezzarsi o deprezzarsi non oltre il 2,5%. Le prove generali, nemmeno a dirlo, andarono male: i paesi entravano e uscivano a piacimento dal serpentone monetario fino a quando questo non cessò di esistere nel 1979. Anche il vecchio trucco di stampare nuova moneta, aumentando al contempo l’inflazione ma contenendo la disoccupazione, cominciò a vacillare, fino a quando, con l’adesione a Eurolandia, le singole nazioni non furono del tutto espropriate della facoltà di stampare moneta, compensando in questo modo gli squilibri della bilancia commerciale.
Come l’Italia sia finita in mano a strozzini come la Merkel è una storia che parte da quei presupposti, passa largamente per le spese allegre di tutti gli anni ?80, che gonfiarono a dismisura il debito pubblico – non tenendo al tempo stesso conto, e questo la Napoleoni non lo dice, del brusco cambiamento demografico subito dalla popolazione, che avrebbe cominciato ad avere pesantissime ripercussioni nella gestione del sistema pensionistico – e arriva alla farsa della vendita del patrimonio nazionale: prima delle trovate folli di Tremonti, IRI, ENI, EFIM e SIP vengono vendute ai privati: il liberismo senza scrupoli della Thatcher e di Reagan arriva anche in casa nostra. L’inutilità di queste manovre, che non fanno altro che produrre debito sul debito – esattamente come nel caso degli usurai che pretendono gli interessi sugli interessi – non ha ottenuto altro effetto che non quello di produrre conseguenze sempre più disastrose e salassi sempre alla stessa categoria, quella dei lavoratori dipendenti, meglio se pubblici. E infatti durante il governo Monti – uno dei presidenti del consiglio peggiori e più cinici dell’intera storia repubblicana – «il debito è salito dal 120 al 126% del PIL» (p.73). Quella che l’autrice chiama “la Caporetto finanziaria” sarebbe arrivata pochi anni dopo quelle vendite sciagurate del patrimonio pubblico in nome delle liberalizzazioni e del risanamento del debito pubblico e precisamente nel 1992, quando il governo Amato varò una legge finanziaria che picconava pesantemente l’intero assetto del welfare: pensioni, ticket sanitari, tassa sul medico di famiglia, blocco degli stupendi e delle assunzioni nel pubblico impiego, prelievo forzoso dai conti correnti. Al tempo stesso Telecom, Eni ed Enel vennero privatizzate totalmente e si diede inizio anche al processo di privatizzazione della banche dello Stato. La cronistoria di quell’annus horribilis, dunque, ci fa capire come la perdita della sovranità monetaria non solo non abbia risolto il problema del debito pubblico, ma abbia al tempo stesso rafforzato la posizione dei creditori, cioè le Banche Centrali Europee. «Per uno Stato – chiarisce la Napoleoni (p. 88) – perdere la capacità di agire sulla leva monetaria è come comprare una macchina pregando che qualcuno ogni tanto ci metta la benzina, al prezzo che lui stabilisce e a suo insindacabile giudizio». Come può dunque sorprendere che in questo valzer di asservimento alle Banche Centrali gli uomini che si alternano sulle poltrone che contano siano sempre gli stessi: Draghi oggi è presidente della BCE, ma è stato vicepresidente della Goldman Sachs, in un evidentissimo conflitto di ruoli; ma non c’è solo Draghi. Ci sono Grilli, Ciampi, Prodi e Monti: tutta gente implicata, a vario titolo, sempre con gli stessi soggetti: Bilderberg e Goldman  Sachs. Come tutto questo sia potuto accadere senza che i popoli mediterranei abbiano imbracciato i forconi, l’autrice prova a spiegarcelo con una tesi audace e suggestiva: una sorta di fatalismo «che sembra accomunare tutti i paesi della periferia colonizzati dal ricco e protestante Nord, tutti cattolicissimi» (p.97: la Napoleoni sta parlando dei cosiddetti PIIGS). Sicché i paesi indebitati si sono lasciati spremere sempre con la stessa ricetta: aumento delle tasse, vendita del patrimonio pubblico e riduzione della spesa pubblica. Il problema è che l’aumento della tasse contrae l’economia, col risultato di innescare un circolo vizioso che porta a minori consumi e quindi produce meno PIL. Si potrebbero spremere i portafogli dei più ricchi, ma questi sono anche quelli meglio collegati con la casta politica e tanto basta a spiegare perché in Italia nessuno abbia mai voluto fare una vera patrimoniale. Restare dentro l’area dell’euro, dunque, sembra non ci abbia giovato granché fin dall’inizio. Quando, cioè, di fatto i prezzi assunsero l’equivalenza tra le mille lire e l’euro, mentre il secondo era circa la metà delle prime. La colpa non fu solo dei soliti commercianti truffaldini, ma dello Stato stesso che, per esempio, stabilì che la giocata minima del Lotto passasse da mille lire a un euro. In termini di potere d’acquisto – ricorda puntualmente l’autrice – «la perdita complessiva, tra il 2002 e il 2012, è stata valutata nel’ordine del 39,7%» (p. 147). Cosa fare, dunque? Continuare incessantemente a pagare l’interesse sul debito per generare altro debito? Uscire dall’euro? Suicidarsi in massa? La Napoleoni, pur adombrando la possibilità dell’uscita dall’euro come un’ipotesi meno peregrina di quanto si possa pensare e con precedenti storici assimilabili, propone una soluzione ibrida: l’introduzione dello scec, una percentuale sul prezzo, e non una moneta, a circolazione ridotta, a diffusione territoriale, già adottata in alcune zone, e che permetterebbe la restituzione progressiva del debito e, con essa, la fine di questa balorda svendita della nostra democrazia agli stati plutocrati del centro Europa.
La scrittura sempre fluida e avvincente, l’ampia mole di documentazione, i tecnicismi spiegati anche ai profani e molte intuizioni affascinanti, tra cui quella che enfatizza il nesso tra colonialismo e capitalismo mostrando il rapporto tra centro e periferia europea come una nuova e più subdola forma di colonialismo, fanno di questa specie di instant book un libro da non perdere, anche a costo di affrontare gli scogli di un linguaggio inevitabilmente tecnico ma sempre chiaro.