martedì 14 maggio 2013

Serge Latouche, Yves Cochet, Jean-Pierre Dupuy, Susan George - Dove va il mondo? Un decennio sull'orlo della catastrofe (Bollati Boringhieri, 2013)





Nel dicembre del 2010 in Francia l’Assemblée Nationale organizzò un convegno sul tema del futuro dell’umanità. Quattro relazioni di quel convegno formano l’ossatura di questo libriccino targato Bollati Boringhieri, che dice pochissimo e non aggiunge quasi nulla ai cultori del catastrofismo.
Sul tappeto ci sono i temi dell’ambiente, della crescita demografica e delle disuguaglianze. Chi già conosca le posizioni espresse nel 1973 dal Club di Roma o abbia letto Il medioevo prossimo venturo di Vacca piuttosto che Entropia di Rifkin non troverà aggiunte sensibili: basterà memorizzare l’informazione che il collasso è previsto già a partire dal 2030. I saggi di Serge Latouche e Susan George si collocano su un livello di divulgazione accettabile. Quelli di Cochet e Dupuy sono puri esercizi di stile che avvilirebbero qualsiasi lettore.

mercoledì 8 maggio 2013

Enzo Caffarelli - Dimmi come ti chiami e ti dirò perché. Storie di nomi e di cognomi (Laterza, 2013)




Da quasi vent’anni Enzo Caffarelli, noto per essere stato il destinatario di una canzone al vetriolo di Venditti (Penna a sfera) quando esercitava come critico musicale, dirige la Rivista italiana di onomastica e insegna presso l’università di Tor Vergata, a Roma. Eppure il suo libro, già a partire dal tono faceto del titolo, non ha nulla della pedanteria accademica né della boria che non di rado inquina la prosa dei cattedratici.
Dimmi come ti chiami e di dirò perché è un viaggio nel mondo dei nomi e dei cognomi italiani (con qualche brevissima sosta all’estero) abbordabile anche dal profano, tanta è la chiarezza espositiva e la brillantezza della prosa. Ricco di riferimenti al cinema, alla musica e alla letteratura, poliedrico in tutte le sue declinazioni, ironico e spiritosissimo, il libro di Caffarelli è tutt’altro che una banale strizzatina d’occhio al lettore. I tecnicismi vengono affrontati con la limpidezza del divulgatore di razza e gli aspetti statistici dell’onomastica risultano sempre commentati adeguatamente nelle loro contenute proporzioni.
Che all’autore le “storie di cognomi” interessino più di quelle dei nomi lo si arguisce dalle proporzioni: ai secondi spettano più o meno la metà delle pagine dei primi. Peccato, perché abbiamo più opportunità di imbatterci in un Francesco che in uno che di cognome faccia Giandinoto. Ciò non toglie che anche il profano venga messo nelle condizioni di capire alcuni meccanismi della formazione o dell’origine dei nomi: così tutti quelli che hanno bertha come suffisso (Alberto, Roberto, ecc.) stanno per “illustre, famoso”; quelli in hardhu (Gerardo, Leonardo, Riccardo) contengono il riferimento a forte, valoroso, duro (si pensi al termine inglese hard). E così via. La ricerca di originalità a tutti i costi, l’influenza dei nomi di personaggi famosi e i contatti sempre più prossimi con altre culture se da una parte hanno portato a un arricchimento del nostro repertorio onomastico, dall’altra hanno avuto anche conseguenze esiziali e ridicole: si pensi alle 67 variazioni di Katia (Katja, Kathya, ecc.), al padre napoletano che ha chiamato il figlio Varenne (già, proprio come il cavallo…) o all’abuso di personaggi televisivi (su tutti, il nome Ridge, dal serial Beautiful). Poi ci sono da dirimere i casi dei nomi che sono sia maschili che femminili (Andrea è il più noto e pochi ricordano che viene dal greco anèr, andròs, maschio…). Lo studioso, a proposito di nomi (ma anche di cognomi) non manca anche di sfatare qualche luogo comune del tutto infondato: non è vero, per esempio, che il repertorio di nomi personali si stia riducendo, così come non è vero che Mario Rossi è la combinazione più diffusa in Italia (il primato spetta infatti a Giuseppe Russo e persino Antonio Esposito precede Mario Rossi). La cosa più interessante riguardo ai nomi, tuttavia, concerne il loro ciclo di diffusione (mediamente tra i 120 e i 140 anni): nomi, cioè, che vanno di moda in alcuni periodi, vengono poi agganciati dalle classi sociali meno elevate, si squalificano, si massificano, vengono avvertiti come poco originali e quindi dimenticati per poi ricomparire con lunghi salti generazionali: Emma, nome oggi diffusissimo tra le bambine (lo precedono soltanto – nell’ordine – Sofia, Giulia, Sara, Martina, Giorgia, Chiara, Aurora e Alice), è sparito per un lunghissimo arco di tempo. Il declino di un nome, quando viene avvertito come troppo diffuso, «può scendere almeno quattro gradini, e sono gradini pesanti» (p. 47). Primo: diventa sinonimo di uomo e donna qualunque (Tizio e Caia hanno seguito proprio questa strada). Secondo: dà origine a voci del lessico, come nel caso di monello, che deriva da Simone. Terzo: viene applicato al mondo della natura, come nella zona del cremonese, dove Caterina è il nome della coccinella. Quarto: i nomi diventano quasi dei tabù, perché riferiti a personaggi d’invenzione, pupazzi, veicoli, eccetera. Basti pensare a Carolina, diffusissimo nell’Ottocento e poi scomparso dopo che la sua estrema popolarità lo aveva fatto associare a una mucca di plastica che veniva regalata a chi comprasse i formaggini Invernizzi. Insomma, il repertorio di analisi, dati e indicazioni di vario tipo è fittissimo: dall’età media di un nome in un preciso momento storico (ogni nome ha un età calcolabile con esattezza e pari alla media dei suoi portatori), a certe stranezze dei maschili dai femminili (e viceversa: oggi Uga e Sergia, da Ugo e Sergio, ci sembrano strani quanto lo potevano sembrare Roberta, Federica e Stefania mezzo secolo fa), alle tautologie (Eugenio Bennato, nome e cognome, vogliono dire la stessa cosa), fino ai suggerimenti sui criteri per dare nomi ai figli.
Altrettanto piene di aneddoti, esempi, dati e analisi sono le sezioni dedicate ai cognomi, dei quali, innanzitutto, si cerca di tracciare una storia. È impossibile stabilire con esattezza – sentenzia lo Caffarelli – quando sono nati esattamente i cognomi. L’abitudine latina di usare il nome delle gentes (Claudia, per esempio, da cui Appio Claudio) era ben diversa da quella che conosciamo oggi, tanto più che nel Medioevo si era completamente estinta e le persone portavano soltanto il nome. Le cose cominciarono a cambiare intorno al XIV-XV secolo: inizialmente appannaggio soltanto delle famiglie altolocate, l’uso del cognome era sostanzialmente «un affare economico e perfino politico» (p.67). Non che fosse mancato qualche caso anche prima, ma è solo tra il Cinque e il Seicento che si cominciarono a diffondere i cognomi in senso moderno. In Italia, poi, dovemmo aspettare addirittura l’istituzione del’anagrafe con l’Unità d’Italia per avere la consacrazione del cognome. Le ragioni di questa innovazione, secondo il linguista, sono sostanzialmente tre: una stabile trasmissione di generazione in generazione; l’immutabilità e la non flessibilità (la forma non cambia di numero e di genere); la non corrispondenza, quanto al significato, con la realtà del portatore: un Grassi non era necessariamente, come in passato, un ciccione e un Vaccaro non è detto che governasse le mucche.
Non che i cognomi nascessero soltanto dagli attributi: a voler cercare una regola, si potrebbe dire che quella più generale che li riguarda ha come riferimento l’inclusione e l’esclusione: si appartiene o non si appartiene a un gruppo. L’origine dei cognomi può essere fatta risalire a 8 criteri diversi: 1) il contatto con un'altra lingua, come per Macaluso (schiavo affrancato, dall’arabo); 2) il nome di un luogo (come per Salerno e Milani); 3) la corrispondenza con un aggettivo relativo a un nome di popolo (Lombardi, Calabrese); 4) cognomi che derivano «dal luogo di residenza o di lavoro interno al centro abitato o sito nei pressi di quelle località» (p. 75), come nel caso di Riva, Piazza, Fontana; 5) i cognomi derivanti da un mestiere o da un titolo onorifico (Ferrari, Nobile); 6) cognomi che derivano da un soprannome legato all’aspetto fisico (Mancini, Moretti); 7) quelli legati a comportamenti e azioni (Bevilacqua, Tagliapietra); 8) infine, quelli imposti ai bambini abbandonati, tra i quali i più noti sono Esposito (a Napoli) e Proietti (a Roma), ma che possono rimandare anche alla religiosità degli istituti d’accoglienza, come nel caso di Sperandio. Quale che sia il criterio, i più diffusi finiscono più per -o (Russo, Esposito, Romano, Colombo, Marino e Greco) che per –i (Rossi, Ferrari, Bianchi e Ricci), al contrario di quanto si pensa comunemente). I fenomeni migratori, poi, hanno contribuito a riscrivere completamente le statistiche: basti pensare che a Brescia Singh è il cognome in assoluto più diffuso, prima di Ferrari, mentre nella stessa città lombarda Kaur è terzo.
La potenza dei cognomi si estrinseca anche nella loro capacità di trasformarsi in parole nuove a servizio del lessico, come nel caso di Carpaccio e Travet.
Tutti questi esempi, dunque,m dovrebbero dare la misura di quanto il libro di Caffarelli si proponga come una commistione gustosissima di ironia (non a caso Totò – che aveva unì’enorme sensibilità linguistica – viene ripetutamente citato) e rigore scientifico, che fa di questo volume un’occasione da non perdere.

martedì 23 aprile 2013

Francesco Erbani - Roma. Il tramonto della città pubblica (2013, Laterza)



Se esiste un caso in cui la titolazione corrisponde più che mai ai contenuti e alla tesi sostenuta nel libro, è proprio quello di questo saggio scritto da Francesco Erbani, che da anni lavora per la redazione culturale de La Rapubblica.
Leggendo le quasi 200 pagine del libro scritto da questo informatissimo giornalista ci si trova davanti alla prova schiacciante di come Roma sia passata dall’essere l’emblema della rappresentanza istituzionale (in quanto capitale d’Italia, sebbene il sacco di Roma sia cominciato proprio a partire dalla breccia di Porta Pia), all’essere la città dell’affarismo più losco e bieco. Una situazione che, con l’aumentare dell’indebitamento delle casse comunali, ha progressivamente e inesorabilmente messo la città nelle mani dei palazzinari. I nomi che tornano nel documentatissimo volume di Erbani sono sempre gli stessi: Caltagirone, Toti, Mezzaroma, Ligresti. Il meccanismo è sempre il medesimo: le amministrazioni comunali sperperano sfacciatamente denaro pubblico (il caso Alemanno legato allo scandalo ATAC è paradigmatico) e poi non hanno i soldi per gestire le opere pubbliche. Allora si fanno avanti i privati, palazzinari senza scrupoli ai quali, in cambio di qualche milioncino di euro, vengono concesse metrature sempre più ampie per costruire alloggi che sono il vero paradosso di questa città. Ne è conseguito che l’urbe si è espansa a dismisura, al punto che a segnalarne lo skyline, per chi arriva da Nord, non sono più i palazzi di Fidene e Castel Giubileo, come è stato per lunghissimo tempo, bensì quelli posticci e dai nomi inequivocabili di Porta di Roma, dati in pasto ai costruttori di mega centri commerciali (dove ci sono Ikea e Leroy Merlin esiste persino una piazza privata!!) in barba a qualsiasi piano regolatore. Il che, mentre si continua a parlare di housing sociale (che nella media europea copre il 15%, con punte del 30 in Germania, mentre da noi arriva soltanto al 6%), ossia «di una via intermedia fra la casa popolare […] e la casa a libero mercato» (p. 67), produce un enorme paradosso: crescono le case e aumentano le persone senza casa, con una bolla immobiliare che assomiglia sempre più a quella che ha provocato «la più acuta e lunga crisi in epoca capitalista e che, dagli Stati Uniti alla Spagna, è stata generata proprio da un eccesso di offerta immobiliare rispetto alla domanda» (p.40). Così a Roma spetta una serie di tristi primati: quello di essere stata, nell’ultimo decennio, la città con il maggior tasso di crescita dello stock edilizio in Italia (1,4%, il doppio di quello di Milano); quella con il maggior numero di veicoli pro capite (978 veicoli a motore ogni 1000 abitanti, compresi nel calcolo i neonati e gli ultranovantenni…); la capitale europea con la più corta rete metropolitana più una serie di altri record più o meno gravi che rendono sempre meno appetibile la vita nella città eterna.
All’abuso edilizio di una città nella quale, non potendo più stampare la lira, «stampiamo metri cubi» (p. 43) e congestionata dal traffico si aggiungono tutte le storture delle amministrazioni che si sono avvicendate negli anni e che soltanto sotto la gestione di Nathan, Argan e Petroselli hanno conosciuto momenti virtuosi: progetti come quello delle 18 centralità, ossia 18 città nella città (tra Porta di Roma, Ponte di Nona, Castellaccio, Magliana), nei quali smistare ministeri e uffici pubblici (qualcosa è già stato avviato nella zona dell’Eur-Torrino) senza preoccuparsi minimamente di creare una rete adeguata di servizi intorno, in modo da far respirare un po’ il centro, che continua a vedere un continuo deflusso degli autoctoni e un corrispondente afflusso di auto: basti pensare che «intorno a via Veneto abitano non più di 4 mila persone; ce n’erano 16 mila nel 1951» (p.150), con gli immigrati (a Roma sono circa il 9% della popolazione) a occupare alloggi malridotti e residenze assistenziali o di fortuna (basti pensare alla Caritas, presso la stazione Termini, alla zona di Piazza Vittorio Emanuele II o alla comunità di S.Egidio, sita a Trastevere).
Di questa valanga di cemento gettato sulla capitale, una valanga che ha finito per divorare gran parte dell’agro laziale, è largamente corresponsabile la Protezione Civile, che ha reso possibile la gestione di un sistema «che da L’Aquila alla Maddalena, passando per i mondiali [di nuoto] del 2009 e per le opere dei 150 anni dall’Unità, controllava appalti e commissionava lavori in un vortice di corruzioni» (p.46). Un fenomeno che ha reso possibile favorire i soliti nomi e assegnare loro spazi edificabili sempre più ampi, grazie anche a meccanismi complessi come quello della compensazione. In sostanza si tratta di questo: il Comune individua un’area e dice che lì è necessario riservarla a un parco o allestirvi servizi. Ma se in quel’area c’è qualche proprietario, il Comune non può espropriarlo. Allora che fa? Gli offre qualcos’altro, magari un po’ più periferico, ma più grande. Ma se l’area che il comune vuole gestire fosse stata edificabile? E se era dichiarata non edificabile in una data epoca ma edificabile in una successiva? Il principio diventa retroattivo? La questione giuridica è spinosa ma nonostante ciò è stata spesso risolta con generose concessioni, “compensazioni”, appunto, ai proprietari originali. Che hanno continuato a costruire in periferia.
Quella che Erbani racconta è dunque la storia - ricca di testimonianze raccolte di prima mano, documenti, analisi acute – di quanto un lettore mediamente attento può trovare seguendo nel tempo la cronaca locale capitolina. Una storia di speculazioni a gogò, smantellamento del territorio, condoni edilizi elargiti con la massima disponibilità, periferie senza servizi, brutte, degradate (Tor Bella Monaca, Laurentino 38, Corviale (i quartieri di edilizia pubblica sorti fra gli anni ’70 e ’80), senza mezzi di trasporto pubblici, senza veri luoghi di raduno, non-luoghi. Il tutto raccontato con il costante contrappunto di chi questa degenerazione l’aveva avvistata da tempo, gente come Antonio Cederna e Italo Insolera.
Roma: il tramonto della città pubblica è dunque un libro che può interessare non soltanto che nella capitale ci vive, ma anche chi volesse farsi un’idea dell’affarismo palazzinaro all’italiana, che qui come altrove ha trovato nella classe politica un complice senza scrupoli. Alla faccia dei cittadini.

lunedì 8 aprile 2013

Loretta Napoleoni - Democrazia vendesi (Rizzoli, 2013)



L’enorme crisi finanziaria cominciata nel 2008 non soltanto sta allargando la forbice che divide i pochissimi ricchi dai tantissimi poveri, ma sta anche producendo lo stesso divario all’interno dei Paesi della Unione Europea, con Germania e Francia (ma persino l’Olanda) a dettare legge su quelli mediterranei, Italia, Spagna e Grecia in primis. L’economista Loretta Napoleoni argomenta dettagliatamente come la crisi del debito pubblico che viene assorbita, “comprata” dai paesi con le economie più robuste, si stia trasformando sempre di più in uno scambio impari nel quale la posta in gioco non è soltanto il denaro, ma la stessa democrazia, con la conseguenza che le decisioni prese a Berlino e Parigi vengono imposte ai governi delle periferia europea e i sacrifici ai loro cittadini. I quali non ce la fanno più. E si ammazzano. Checché ne possa dire il sociologo Marzio Barbagli (clamoroso per faziosità e alterazione del dato una sua intervista comparsa su La Repubblica), l’aumento dei suicidi dovuto alla crisi economica è talmente in ascesa «che neppure durante l’occupazione nazista in Europa […] l’indice dei suicidi è stato così alto» (p.24). L’aumento del tasso di suicidi, dunque, come sintomo di un malessere sociale diffuso ma anche indotto dalle stramberie delle politiche comunitarie. Si prenda il caso della Grecia: dopo l’incidente della Prestige (la petroliera che rovesciò greggio in mare dopo essersi incagliata nelle coste galiziane), nel 2002, e dopo che la Thatcher aveva iniziato l’opera di smantellamento dei grandi cantieri navali sui quali era prosperato l’impero britannico, vista di buon occhio dalla nascente Unione Europea intenta a smembrare l’industria pesante, agli armatori greci venne imposta, come agli altri del resto, una norma pesantissima. Nonostante ancora oggi essi siano i proprietari «del 19% della flotta mercantile mondiale» (p.56), per loro si fece obbligo del doppio scafo allo scopo di porre immediatamente rimedio ad altri eventuali disastri ecologici: la spesa per sostenere un’impresa del genere è enorme e l’industria navale greca, vero motore dell’economia di Atene, ebbe un tracollo, lasciando campo libero alle economie orientali presso le quali i vincoli normativi sono meno rigidi. Se dunque la crisi dei paesi delle periferie, come documenta il caso greco, ha un’origine connessa all’economia reale, anche il contributo dell’economia finanziaria non è da meno. Tutto ha inizio con la fine degli accordi di Bretton-Woods, voluta da Nixon nel 1971: gli accordi, cioè, che sancivano la convertibilità del dollaro con l’oro. Questo significa che quei paesi che, come l’Italia, disponevano di cospicui giacimenti aurei, vennero a trovarsi improvvisamente sprovvisti di quel potenziale finanziario al quale avrebbero potuto fare appello nei periodi di vacche magre. Ecco allora che per corre ai ripari l’anno dopo venne lanciato il primo esperimento di Unione Europea, uno stratagemma che pochi ricordano: il serpente monetario. La dizione, rammenta la Napoleoni (p. 65) - «deriva dal fatto che i tassi di cambio delle monete europee potevano fluttuare soltanto all’interno di una banda, un tunnel, la cui ampiezza era 2,5% in positivo e in negativo», che, tradotto, significava per esempio che il tasso lira-marco poteva apprezzarsi o deprezzarsi non oltre il 2,5%. Le prove generali, nemmeno a dirlo, andarono male: i paesi entravano e uscivano a piacimento dal serpentone monetario fino a quando questo non cessò di esistere nel 1979. Anche il vecchio trucco di stampare nuova moneta, aumentando al contempo l’inflazione ma contenendo la disoccupazione, cominciò a vacillare, fino a quando, con l’adesione a Eurolandia, le singole nazioni non furono del tutto espropriate della facoltà di stampare moneta, compensando in questo modo gli squilibri della bilancia commerciale.
Come l’Italia sia finita in mano a strozzini come la Merkel è una storia che parte da quei presupposti, passa largamente per le spese allegre di tutti gli anni ?80, che gonfiarono a dismisura il debito pubblico – non tenendo al tempo stesso conto, e questo la Napoleoni non lo dice, del brusco cambiamento demografico subito dalla popolazione, che avrebbe cominciato ad avere pesantissime ripercussioni nella gestione del sistema pensionistico – e arriva alla farsa della vendita del patrimonio nazionale: prima delle trovate folli di Tremonti, IRI, ENI, EFIM e SIP vengono vendute ai privati: il liberismo senza scrupoli della Thatcher e di Reagan arriva anche in casa nostra. L’inutilità di queste manovre, che non fanno altro che produrre debito sul debito – esattamente come nel caso degli usurai che pretendono gli interessi sugli interessi – non ha ottenuto altro effetto che non quello di produrre conseguenze sempre più disastrose e salassi sempre alla stessa categoria, quella dei lavoratori dipendenti, meglio se pubblici. E infatti durante il governo Monti – uno dei presidenti del consiglio peggiori e più cinici dell’intera storia repubblicana – «il debito è salito dal 120 al 126% del PIL» (p.73). Quella che l’autrice chiama “la Caporetto finanziaria” sarebbe arrivata pochi anni dopo quelle vendite sciagurate del patrimonio pubblico in nome delle liberalizzazioni e del risanamento del debito pubblico e precisamente nel 1992, quando il governo Amato varò una legge finanziaria che picconava pesantemente l’intero assetto del welfare: pensioni, ticket sanitari, tassa sul medico di famiglia, blocco degli stupendi e delle assunzioni nel pubblico impiego, prelievo forzoso dai conti correnti. Al tempo stesso Telecom, Eni ed Enel vennero privatizzate totalmente e si diede inizio anche al processo di privatizzazione della banche dello Stato. La cronistoria di quell’annus horribilis, dunque, ci fa capire come la perdita della sovranità monetaria non solo non abbia risolto il problema del debito pubblico, ma abbia al tempo stesso rafforzato la posizione dei creditori, cioè le Banche Centrali Europee. «Per uno Stato – chiarisce la Napoleoni (p. 88) – perdere la capacità di agire sulla leva monetaria è come comprare una macchina pregando che qualcuno ogni tanto ci metta la benzina, al prezzo che lui stabilisce e a suo insindacabile giudizio». Come può dunque sorprendere che in questo valzer di asservimento alle Banche Centrali gli uomini che si alternano sulle poltrone che contano siano sempre gli stessi: Draghi oggi è presidente della BCE, ma è stato vicepresidente della Goldman Sachs, in un evidentissimo conflitto di ruoli; ma non c’è solo Draghi. Ci sono Grilli, Ciampi, Prodi e Monti: tutta gente implicata, a vario titolo, sempre con gli stessi soggetti: Bilderberg e Goldman  Sachs. Come tutto questo sia potuto accadere senza che i popoli mediterranei abbiano imbracciato i forconi, l’autrice prova a spiegarcelo con una tesi audace e suggestiva: una sorta di fatalismo «che sembra accomunare tutti i paesi della periferia colonizzati dal ricco e protestante Nord, tutti cattolicissimi» (p.97: la Napoleoni sta parlando dei cosiddetti PIIGS). Sicché i paesi indebitati si sono lasciati spremere sempre con la stessa ricetta: aumento delle tasse, vendita del patrimonio pubblico e riduzione della spesa pubblica. Il problema è che l’aumento della tasse contrae l’economia, col risultato di innescare un circolo vizioso che porta a minori consumi e quindi produce meno PIL. Si potrebbero spremere i portafogli dei più ricchi, ma questi sono anche quelli meglio collegati con la casta politica e tanto basta a spiegare perché in Italia nessuno abbia mai voluto fare una vera patrimoniale. Restare dentro l’area dell’euro, dunque, sembra non ci abbia giovato granché fin dall’inizio. Quando, cioè, di fatto i prezzi assunsero l’equivalenza tra le mille lire e l’euro, mentre il secondo era circa la metà delle prime. La colpa non fu solo dei soliti commercianti truffaldini, ma dello Stato stesso che, per esempio, stabilì che la giocata minima del Lotto passasse da mille lire a un euro. In termini di potere d’acquisto – ricorda puntualmente l’autrice – «la perdita complessiva, tra il 2002 e il 2012, è stata valutata nel’ordine del 39,7%» (p. 147). Cosa fare, dunque? Continuare incessantemente a pagare l’interesse sul debito per generare altro debito? Uscire dall’euro? Suicidarsi in massa? La Napoleoni, pur adombrando la possibilità dell’uscita dall’euro come un’ipotesi meno peregrina di quanto si possa pensare e con precedenti storici assimilabili, propone una soluzione ibrida: l’introduzione dello scec, una percentuale sul prezzo, e non una moneta, a circolazione ridotta, a diffusione territoriale, già adottata in alcune zone, e che permetterebbe la restituzione progressiva del debito e, con essa, la fine di questa balorda svendita della nostra democrazia agli stati plutocrati del centro Europa.
La scrittura sempre fluida e avvincente, l’ampia mole di documentazione, i tecnicismi spiegati anche ai profani e molte intuizioni affascinanti, tra cui quella che enfatizza il nesso tra colonialismo e capitalismo mostrando il rapporto tra centro e periferia europea come una nuova e più subdola forma di colonialismo, fanno di questa specie di instant book un libro da non perdere, anche a costo di affrontare gli scogli di un linguaggio inevitabilmente tecnico ma sempre chiaro.

mercoledì 27 marzo 2013

Serge Latouche - Usa e getta. Le follie del'obsolescenza programmata (2013, Bollati Boringhieri)





Nel film Prêt à jeter, di Cosima Dannoritzer, si vede un ragazzo alle prese con una stampante che non ne vuole sapere più di funzionare. Il tipo si rivolge a un centro assistenza autorizzato, dove gli rispondono che il costo della stampante nuova è praticamente lo stesso della riparazione. Il ragazzo è testardo: cerca in rete e scopre che il problema sta in un chip “messo appositamente nella macchina per farla bloccare dopo 18.000 copie”. Il ragazzo trova un software distribuito gratuitamente sul web da un internauta russo, che annulla il contacopie della stampante e la fa ripartire. È esattamente quello che è successo a me. Ed è un episodio analogo a un altro che mi è capitato di recente. Vado dall’elettrauto e gli domando: “Scusi, ma perché la prima automobile che ho posseduto non ha mai avuto bisogno che le cambiassi la batteria? Mi bastava rabboccare la stessa con l’acqua distillata…”. E lui: “Signore, ha visto che adesso le batterie, nell’alloggio dell’acqua distillata, sono tutte sigillate? Si è mai domandato perché?”. Ecco. Questi due episodi sono esemplificativi di cosa sia l’obsolescenza programmata, ossia l’accorciamento del ciclo di vita dei prodotti, argomento centrale di questo libro snello ma densissimo e formidabile di Serge Latouche, guru della decrescita e tra i massimi sostenitori al mondo della necessità di invertire la continua sbornia di consumi che andiamo facendo da oltre un secolo a questa parte.
Insieme al credito al consumo e alla pubblicità, l’obsolescenza programmata è la base del consumo forsennato: “la pubblicità crea il desiderio di consumare, il credito ne fornisce i mezzi, l’obsolescenza programmata ne rinnova la necessità”. Va da sé che quella programmata non sia la sola forma di obsolescenza. È però quella più perversa. Le altre sono l’obsolescenza tecnica e l’obsolescenza psicologica. Quella tecnica per gran parte della storia dell’uomo è proceduta con lentezza millenaria. La si può esemplificare nel passaggio dalla diligenza alla locomotiva. Quella psicologica è la quintessenza di quella che Vance Packard chiamava la persuasione occulta: metto in circolazione l’iPhone5 e il tuo iPhone4, perfettamente funzionante, ti sembrerà obsoleto. Quella programmata, dicevo, è la più mostruosa e perversa di tutte. Giustificata dall’assunto capitalista secondo il quale l’unico modo per mantenere costante l’occupazione è quello di mantenere costante il consumo, garantendo la deperibilità degli oggetti, l’obsolescenza programmata ha mandato in pensione i concetti di durata e recupero, con le sole eccezioni dei periodi di forte recessione. Ecco allora che tra il 1940, quando Dupont de Nemours lancia una calza di nylon praticamente indistruttibile (ha una tale solidità, racconta Latouche, che “può fungere da cavo per rimorchiare un’automobile” e non si smaglia mai, e il 2003, anno della prima class action contro l’iPod della Apple, le cose sostanzialmente non sono mai cambiate. Nel caso della calza di nylon, gli ingegneri dell’azienda stessa “vennero incaricati di fragilizzare la fibra miracolosa inserendovi dei geni di mortalità”; nel secondo, l’azione legale collettiva fu sollecitata dal fatto che gli acquirenti dell’iPod si erano accorti che il loro giocattolino “aveva una batteria non riparabile programmata per durare soltanto diciotto mesi”. Pur nella difficoltà di datare con esattezza l’eclissi dell’etica del durevole a tutto vantaggio dell’obsolescenza programmata, Latouche colloca quest’inversione di rotta intorno agli anni ’30 del Novecento, mentre non ha dubbi nell’additare il paese che ne è il maggiore responsabile: gli Stati Uniti d’America. Anticipato dal fenomeno dell’adulterazione, suo strettissimo cugino che ha investito il campo dell’alimentazione, l’obsolescenza programmata è figlia legittima di qualcosa con cui liberisti e neoliberisti ci martellano la testa da decenni: la concorrenza. La concorrenza non è affatto benefica come dimostra quello che avvenne negli anni ’30, quando il modello firdista – di per sé non certo un modello di virtù, giacché era fondato sulla catena di montaggio – subì i contraccolpi della concorrenza della General Motors. Quest’ultima produceva auto molto meno affidabili, di qualità e resistenza nel tempo inferiori, ma vi aggiungeva i gadget e il colore (all’opposto, è diventata famosa la frase di Henry Ford a proposito della sua Ford T: “potete acquistarla di qualsiasi colore, purché sia nero”). Da lì in avanti, una gran parte degli oggetti che contenessero della tecnologia avrebbero dovuto osservare lo stesso diktat: ridurre il ciclo di vita del prodotto. Ecco allora che eventi come la festa organizzata nel 2001 in occasione del centesimo anno consecutivo di funzionamento di una lampadina a filamento di carbonio che “dal 1901 aveva illuminato ininterrottamente l’ingresso” della caserma dei pompieri di Livermore, in California, diventano una rarità assoluta e cedono il passo, per rimanere nello stesso ambito, a prodotti sempre più deperibili, a lampadine che si fulminano nel giro di qualche mese. È una storia che nasce ancora prima, e le cui avvisaglie iniziali si possono rintracciare nel 1872, anno in cui in America si producevano 150 milioni di colli e polsini di camicia non lavabili. La “colpa”, però, non era tutta degli americani: gran parte degli immigrati europei erano uomini scapoli che non avevano alcuna consuetudine con lavaggio e stiraggio. La storia continuava con Gillette che inventò il rasoio usa e getta, Lasker che nel 1924 lanciò i kleenex, concepiti inizialmente per esaurire le scorte di cellulosa prodotta durante la prima guerra mondiale; dieci anni più tardi arrivarono i Tampax. Tutti questi eventi costituiscono soltanto la prima delle 5 fasi che Latouche individua nella marcia trionfale dell’obsolescenza programmata. La seconda è, appunto, il cosiddetto “modello Detroit” (la città delle automobili per eccellenza), con la fine del monopolio della Ford, a cui segue l’obsolescenza programmata propriamente detta, l’avvento della data di deperimento ovvero “il trionfo del nuovo usa e getta e infine l’obsolescenza alimentare”. Rispetto a queste ultime due, vale la pena di ricordare, per quanto riguarda la seconda ondata di usa e getta, l’invenzione della Motorola, negli anni ‘50, della prima radiolina che non poteva essere riparata. Per ciò che attiene all’obsolescenza alimentare, basterebbe l’abbandono della pratica della restituzione dei vuoti e la diffusione sempre più massiccia di prodotti i cui contenitori devono essere buttati (la massima perversione, a mio avviso, è l’insalata già tagliata e venduta in busta: gli acquirenti di quei prodotti andrebbero incriminati e processati per direttissima perché sono la quintessenza del cretino, stando alla definizione di Carlo Maria Cipolla: oltre a danneggiare gli altri, l’ambiente, danneggiano anche loro stessi a causa del microclima insalubre che si crea all’interno della busta, dove proliferano batteri a gogo) per averne un qualche sentore. Latouche ci ricorda anche del fenomeno sempre più diffuso del dardanismo, che – al di là del nome dotto – altro non è che una forma “di distruzione su vasta scala delle derrate alimentari”.
Tutto questo non pone soltanto serissimi problemi ambientali, economici e sociali, ma anche etici. Scomparso pressoché del tutto il “capitalismo buono” (un ossimoro?), gli uomini d’affari di oggi e i loro lacchè hanno una sola ragion d’essere: trarre il massimo profitto dall’ampliamento della domanda. “Come la morale di Eichmann, che consisteva nell’eseguire senza discutere le istruzioni provenienti dall’organizzazione – ci ricorda Latouche – la religione del profitto è la porta spalancata su quella che Hannah Arendt chiamava la banalità del male. Ma come difendersi da tutto ciò? È chiaro che la lotta tra produttori e consumatori è impari: troppo possente la capacità di seduzione dei primi sui secondi, troppo difficile riuscire ad avviarsi verso quella “abbondanza frugale” (un altro ossimoro) che però è l’unica via di uscita a una situazione che non lascia scampo alla fine delle risorse naturali. L’industria dovrà dunque abbandonare progressivamente l’obsolescenza programmata incorporata nei prodotti, ma al tempo stesso sarà necessario che i consumatori comincino a transitare – come suggeriva anche Rifkin ne L’era dell’accesso – verso beni condivisi. Ma il vero punto chiave – come avevo già ricordato recensendo Lareligione dei consumi di Ritzer – è la decolonizzazione dell’immaginario e il reincantamento del mondo: soltanto quando ci saremo liberati dell’ideologia dell’usa e getta e dell’accumulo seriale di beni forse potremo sentirci davvero più felici e liberi.