domenica 11 novembre 2012

George Ritzer - La religione dei consumi (Il Mulino, 2012)


Conosciuto dal pubblico extraccademico soprattutto per avere pubblicato un testo seminale come Il mondo alla McDonald’s, George Ritzer riprende molti dei concetti impiegati in quel volume per ricontestualizzarli in un’opera dal respiro ancora più ampio che aggiorna l’analisi delle “cattedrali del consumo” alla contemporaneità.
Al concetto weberiano di razionalizzazione, vero punto di snodo dell’opera precedente, l’autore aggiunge quelli in incantamento, disincanto, simulazione, implosione e, naturalmente, strumenti di consumo. L’analogia tra fenomeno religioso e comportamento di consumo, a dispetto del titolo, è appena abbozzata, ma è sufficiente a mostrare quanto di coattivo e manipolatorio ci sia nella nostre vite e che ci spinge al consumo compulsivo senza che ce ne rendiamo più conto. Il gioco consiste nell’indurre alla sostituzione dei rapporti con gli umani con quelli inanimati delle merci, in un’ottica in cui diventa centrale la quantità rispetto alla qualità (size is matter), la spettacolarizzazione delle merci, l’implosione del tempo e dello spazio del consumo, nello spostamento dalla fabbrica come elemento chiave di una società basata sulla produzione al centro commerciale come icona di una società basata sul consumo. I grandi centri commerciali diventano allora i non luoghi adibiti ad attirare consumatori inconsapevoli verso una ridda di merci diversificate ma riunite all’interno dello stesso enorme luogo, con la contraddizione che ciò comporta in termini di impegno pedatorio da parte degli avventori.
Pur evitando precisazioni cronologiche eccessive, l’autore tende a collocare il repentino cambiamento dello scenario dei consumi dopo la seconda guerra mondiale: un cambiamento indotto tanto dalla diffusione di nuove tecnologie quanto dall’accesso ai consumi da parte di giovani e anziani, categorie sociali precedentemente escluse per ragioni tra loro profondamente differenti.
Ecco allora che in questo nuovo scenario cambiano i giocattoli – che se una volta rappresentavano una sorta di viatico verso la vita adulta, a partire dagli anni ’30 sono stati pensati appositamente per i bambini – vengono pianificate le strategie di esposizione delle merci (e qui sembra di ritrovare quel libro seminale di Vance Packard che è I persuasori occulti) e sempre più concentrati i luoghi del consumo. La potenza ipnotica delle merci finisce così per proporre nuovi strumenti di consumo che, secondo Ritzer, mostrano un numero crescente di analogie con le prigioni: spazi chiusi, disciplina ferrea, asetticità dei luoghi condivisi, telecamere, sorveglianza, percorsi obbligati (pensate a quando siete all’Ikea), eccetera. Il problema di come tenere alto il profilo dei consumi viene superato con un gioco di continuo re-incantamento e spettacolarizzazione delle merci stesse.
Un libro dunque assai ben argomentato, documentatissimo, non di rado ai limiti della pedanteria, che fa ampio riferimento alla condizione americana – autentico volano nel proporre la religione dei consumi a livello globale – e prosecutore ideale di classici come Weber, Veblen e Packard. Un libro che merita certamente attenzione, dunque, nonostante sia scritto con uno stile poco accattivante e presenti una forte ripetitività dei concetti.
Alla fine della lettura ci si domanda: perché mai dovrei scrivere una recensione? Nelle strategie di articolazione dei nuovi strumenti di consumo non rientra forse il fatto di far “lavorare” i consumatori stessi, come quando dobbiamo passare sotto il lettore per codici a barre le merci che ci accingiamo ad acquistare? E Amazon,o Anobii stesso, non sfruttano forse questo stesso meccanismo?

giovedì 1 novembre 2012

Giovanni Ciofalo - Infiniti anni ottanta (Mondadori, 2011)



Gran parte di ciò che la società italiana è diventata oggi lo si deve a ciò che è stato seminato negli anni ’80. È la tesi di Gi(ov)anni Ciofalo, docente di sociologia dei processi culturali alla Sapienza di Roma, che nelle circa 200 pagine (scritte in un corpo carattere talmente piccolo da essere realisticamente almeno un terzo di più) mostra, con esattezza di argomenti e puntualità di osservazioni, come le massicce trasformazioni intervenute a livello culturale e sociale nel nostro paese siano in gran parte addebitabili a quella rivoluzione che furono gli anni ’80. È facile vedere come il sistema televisivo sia stato in gran parte responsabile di questa metamorfosi – e infatti l’autore dedica quasi metà del volume all’argomento – al punto di contribuire a ridisegnare l’identità stessa degli italiani. In questa prospettiva, scrive Ciofalo, “è plausibile che in quegli anni l’atavica furbizia del carattere nazionale, la mancanza di spirito civico e l’arrivismo senza scrupoli degli italiani abbiano smesso di essere considerati disvalori di cui vergognarsi, per diventare strategie vincenti con cui affrontare le sfide della modernità”. Ecco allora che parole come evasione, intrattenimento, ridondanza, volgarità, kitsch e concetti come quello della sovraesposizione del corpo femminile si incuneano abitudinariamente nel vocabolario degli italiani, a tutto vantaggio di un ribaltamento epocale dei costumi e dei consumi degli italiani.
Documentatissimo, il testo si avvale sia di una massiccia mole di dati che di un’imponente bibliografia che Ciofalo dimostra di padroneggiare perfettamente, tanto sono dettagliati e consonanti al testo i riferimenti ai diversi autori, studi, ricerche. L’ampiezza di sguardo la si coglie soprattutto nei primi due capitoli dedicati a società e cultura (il primo) e alle industrie culturali degli anni ottanta (il secondo). Un libro imperdibile per chi quegli anni li ha vissuti con sufficiente maturità anagrafica e con la netta sensazione di essere testimone di una svolta radicale, ma che appassionerà anche chi oggi si volesse interrogare sul nostro presente. Unico neo, qualche vezzo linguistico tipico degli studiosi di comunicazione, a volte troppo inclini a creare neologismi cacofonici come “altroquandismo”. Inciampo veniale a fronte di una invidiabile capacità di scrittura.

martedì 30 ottobre 2012

Donata Francescato - Amore e potere (Mondadori, 1997)



Titolo e sottotitolo sono fuorvianti. L’autrice che sei anni prima aveva dato alle stampe quel libro seminale che è Quando l’amore finisce, parte ritagliando una porzione di quella tematica, cominciando appunto col discutere di amore e potere. Ma dopo poche pagine la dimensione psicologica si affievolisce per lasciare spazio ad altri ambiti disciplinari che la Francescato esplora in lungo e in largo: dall’economia alla pedagogia, dalla politica alla sociologia. Gli intenti divulgativi del testo sono d’altronde chiarissimi fin dal principio, dal momento che il volume è concepito sotto forma di intervista tra un immaginario “Aiem”, che deve ancora venire al mondo, e l’autrice stessa. Un buon viatico, dunque, per chi è pressoché a digiuno del problema del potere – che si presta certo più a una declinazione socio-politologica che psicologica – ma un’opera ridondante e con molte pagine scontate per chi quegli argomenti li frequenta da tempo. Per quest’ultimo tipo di lettore, sono proprio gli aspetti legati all’analisi psicologica quelli più pregnanti, come quando si parla del rapporto tra orgasmo maschile e femminile, da una parte, e capacità emozionale dall’altra o come quando si offre una lettura della ricerca spasmodica dell’innamoramento come accesso facilitato alle emozioni.

martedì 2 ottobre 2012

Donata Francescato - Quando l'amore finisce (Il Mulino, 2012)



Non è il solito libro di self-help e nemmeno un bigino per cuori infranti il libro seminale di Donata Francescato, arrivato alle terza edizione a vent’anni esatti dal suo esordio in libreria. La studiosa, una psicologa di chiara fama, prende da subito il toro per le corna smontando fin dalle prime pagine, grazie al supporto di una bibliografia ricchissima (ma purtroppo non raccolta alla fine del volume), l’idea che l’amore romantico sia di per sé qualcosa di positivo. Al contrario, ammonisce la Francescato facendo leva sul sociologo Slater, l’amore romantico è per così dire sponsorizzato dall’etica del consumo: la richiesta di qualità in amore è alla base dell’adozione di un meccanismo di continua richiesta di novità che si applica anche all’amore. Sicché il passaggio dalla rottura dei matrimoni “per colpa” a quella “per insoddisfazione”, congiuntamente con l’influenza della giurisprudenza, del femminismo e della maggiore autonomia femminile, ha determinato un impressionante aumento delle separazioni.
I concetti chiave sui quali si impernia questo appassionante libro – costruito in buona parte a ridosso delle 610 interviste in profondità che l’autrice e la sua squadra hanno rivolto a persone separate – sono quelli di amore come antidoto, la ricerca narcisistica di risarcimento alle frustrazioni dell’io bambino e il conseguente ingaggio di relazioni come compensazione della bassa autostima, i copioni di vita che ci inducono a ricalcare il modello genitoriale, differenziazione e individuazione nella coppia, intimità e indipendenza.
Con uno stile asciutto, scorrevole, ricchissimo di testimonianze, l’autrice si muove con agilità tra la psicologia del profondo e le molte discipline che si sono occupate del problema delle separazioni, fornendo prove, analisi, suggerimenti che rendono questo libro un’opera di valore apicale nel suo genere.
Non aggiungono molto le due postfazioni (quella del 2002 e quella del 2012) e colpisce, unico neo del volume, la gran quantità di refusi riscontrata in un prodotto di un editore di razza come Il Mulino. Su tutti, “a loro”, scritto spessissimo “alloro”, quasi che nella riproposizione del testo fosse stato adottato uno strumento di acquisizione automatica.