venerdì 18 settembre 2015

Hartmut Rosa - Accelerazione e alienazione (Einaudi, 2015)



La società dromologica nella quale viviamo ci impone tempi sempre più serrati, ci costringe a un affanno costante, restituendoci la sensazione di una continua mancanza di tempo. Il sociologo tedesco Hartmut Rosa, che si occupa di queste tematiche da diversi anni, compie un tentativo avvincente e in gran parte riuscito sul piano teoretico (ma con significativi accorgimenti metodologici) di riportare il problema dell’accelerazione entro il perimetro della teoria critica di ispirazione francofortese, facendo sponda su un concetto come quello di alienazione di chiara matrice marxista e quindi nel solco della formazione di Horkheimer, Adorno, Habermas, etc. In un afflato che si direbbe più di filosofia sociale che di sociologia, Rosa si domanda se si possa dire una vita buona (la εδαιμονία dei filosofi greci) quella che viene spesa nel’ossessione della velocità e della competizione. La risposta è abbastanza ovvia ma ciò che rileva nel libro è l’argomentazione fittissima a cui il professor Rosa ricorre.
Da un lato la pace di Vestfalia (1648), dall’altro la prima rivoluzione industriale nel secolo successivo costituiscono per Rosa le pietre angolari sulle quali è stato eretto l’edificio della società dell’accelerazione. La prima perché avrebbe innescato la competizione tra Stati nazionali, la seconda perché ne sarebbe diventata lo strumento. Ecco quindi che nel breve lasso di tempo che trascorre tra la prima modernità (il ‘700) e la tarda modernità (oggi), gli individui si sono trovati a vivere un salto che da intergenerazionale si è fatto prima generazionale durante la modernità “classica” e quindi intragenerazionale. Attingendo da Laslett, Rosa chiarisce cioè che conformemente a quanto appena detto “la struttura della famiglia tipo nelle società agricole tendeva a rimanere stabile nei secoli e il cambio generazionale lasciava intatta la struttura di base. Nella modernità classica (all’incirca tra il 1850 e il 1970) la struttura era invece pensata per durare una generazione: era organizzata attorno a una coppia e tendeva a dissolversi con la morte dei coniugi. Nella tarda modernità si osserva una tendenza crescente da parte dei cicli di vita famigliare a durare meno della vita dell’individuo: aumento di divorzi e nuovi matrimoni sono la prova più evidente di questo fatto”. Con quali conseguenze? Devastanti, è quasi pleonastico dirlo, e coinvolgenti l’intera esistenza dell’individuo, la sua identità, il suo rapporto con lo spazio, con la politica, con gli altri. Per Rosa la presenza prominente dell’accelerazione, in larghissima parte effetto dell’industrializzazione e della conseguente trasformazione del capitalismo, è stata il vettore di una forza totalitaria che assorbe ormai una grandissima parte del passaggio, per dirla con Koyrè, dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. L’accelerazione delle macchine e della tecnologia non ha affatto mantenuto la promessa liberatrice che portava con sé. Al contrario, ci ha messo nelle condizioni di sentirci tutti in colpa alla fine della giornata, “perché non abbiamo soddisfatto le aspettative. Non siamo mai in grado di arrivare alla fine della nostra ‘lista di cose da fare’, anzi la distanza dal fondo di quell’ammasso di roba cresce ogni giorno”. Questo meccanismo, a detta dell’autore di Accelerazione e alienazione, non solo si applica “ai lavoratori salariati, ma anche ai datori di lavoro e ai dirigenti: nessuno di loro ha mai potuto controllare le regole del gioco, ma solo imparare a giocare bene”.
In questa prospettiva è comprensibile che il notissimo apoftegma di Blade runner, “La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo”, rischi di potersi attagliare non soltanto ad alti dirigenti, intellettuali e gente super indaffarata (la comunità sociologica potrebbe richiamare alla memoria il caso di Statera), ma persino all’arte, tanto è vero che quella stessa frase campeggia come epitaffio sulla tomba di Jimi Hendrix, sebbene postuma (il film fu girato 12 anni dopo la morte del chitarrista americano). Siamo tutti schiavi del multitasking, insomma.
Tornando a Rosa e alle sue osservazioni sugli esiti dell’accelerazione nelle nostre vite, egli, come si accennava, riporta esempi dai campi più disparati. Innanzitutto l’identità, che oggi si è fatta per così dire “situazionale”, addirittura “usa e getta”. Prendendo spunto da Simmel (1903), che agli effetti dell’industrializzazione sulla formazioni urbane dedicò una parte fondamentale della sua opera, Rosa ci ricorda ad esempio che, al contrario di quanto avveniva in passato, “molto di rado abbiamo a che fare con persone che sono state testimoni di tutto l’arco della nostra vita: una cosa, questa, che ha conseguenze anche sulle forme moderne di soggettività”. Non sorprende allora che una delle risposte che gli individui danno a questa frammentazione e ingovernabilità dell’identità sia la ricerca della gratificazione istantanea attraverso i comportamenti di consumo.
Dentro questa metamorfosi della soggettività c’è anche la contrazione dello spazio, l’aumento dei voli intercontinentali che rendono possibili amicizie con persone fisicamente assai lontane, i rapporti mediati dai social network. Da questo punto di vista, l’uomo della tarda modernità è costretto ad adattarsi a uno stile relazionale che nell’arco di una sola vita (la sua) gli impone compiere una trasformazione che l’intera storia dell’umanità non ha ancora realizzato. Per dirla con un paio di paroloni, l’ontogenesi dell’individuo si separa nettamente dalla filogenesi della sue specie, costringendolo a un adattamento cognitivo del suo rapporto con lo spazio. Su questo punto il pensiero di Rosa si fa icastico: “la vicinanza e la distanza sociale ed emotiva – scrive il sociologo tedesco – non sono più legate al fattore spaziale, tanto che il nostro vicino può essere per noi un perfetto estraneo, mentre qualcuno dall’altra parte del globo potrebbe essere il nostro partner più intimo”.
Parimenti, anche la politica e i processi democratici sono messi a dura prova dai meccanismi di accelerazione: se già una ventina d’anni fa Popkin e Dimock (1996) parlavano di “scorciatoie informative” a proposito delle scelte elettorali dei cittadini, oggi questo meccanismo è stato ulteriormente contaminato dalla svolta “estetica” della politica, con una predominanza dell’essere più “trendy” o “cool” rispetto a idee e programmi, con inevitabili ricadute sulla volubilità dell’elettore, capacissimo di cambiare repentinamente sponda rispetto a proposte politiche sempre meno differenziate. Anche per questo – suggerisce Rosa – “l’idea di guida da parte della politica si è trasformata da strumento di dinamicizzazione sociale, nella prima età moderna e nella modernità classica, a barriera e ostacolo a un’ulteriore accelerazione in condizioni tardomoderne. Per questo il progetto neoliberale degli ultimi vent’anni perseguiva il progetto di rendere più veloce la società (e in particolare i flussi di capitale) riducendo o addirittura sradicando il controllo o la guida politica – attraverso misure di deregolamentazione, privatizzazione e giuridificazione”.
Il notissimo motto di Benjamin Franklin secondo il quale il tempo è denaro ha dunque investito non soltanto il mondo della politica e degli affari, ma quasi qualsiasi attività umana, al punto da ergere a diktat teleologico il valore tanto dell’uno quanto dell’altro. Competizione è diventata di conseguenza la parola d’ordine e “poiché guadagniamo stima sociale attraverso la competizione, la velocità è essenziale per la mappa del riconoscimento nelle società moderne. Dobbiamo essere veloci e flessibili per guadagnare (e preservare) il riconoscimento sociale, ma allo stesso tempo è proprio il nostro desiderio di riconoscimento a muovere incessantemente le ruote dell’accelerazione”. Da questo processo aberrante e, appunto, alienante, non sono immuni né la scienza, che ha creato la tecnologia che ha a sua volta determinato l’accelerazione, né tanto meno l’Università. Lo dimostra il fatto che nel mondo accademico viviamo sotto lo spauracchio del “pubblica o muori”, con la conseguenza che le pubblicazioni sono sempre più spezzettate, rapsodiche, istantanee, spesso prive di quel carattere di riflessione che necessiterebbe all’uopo, col risultato paradossale che, con i criteri oggi vigenti, Ferrarotti non otterrebbe l’abilitazione e potremmo scordarci le ricerche seminali e pionieristiche dei coniugi Lynd, di Thomas e Znaniecki o di Kinsey: tutte hanno richiesto troppo tempo per essere pubblicate.
Se a Rosa va riconosciuto il rigore argomentativo, il continuo tentativo di proporre soluzioni e la capacità si segnalare i paradossi di questa situazione (il cui emblema è l’ingorgo stradale) al problema del livello empirico della questione, qualche perplessità sorge in merito alle soluzioni che, comprensibilmente, non vengono esplicitate. Rosa concede pochissimo spazio ai teorici della decrescita o ai sostenitori dei modelli slow, né prende in considerazione possibili manifestazioni di luddismo. In filigrana sembra di leggere una felpata rassegnazione, sebbene in opere precedenti sullo stesso tema il sociologo tedesco abbia proposto una democratizzazione radicale delle pratiche sociali in cui siamo immersi. A meno di non voler continuare a vivere una vita nella quale è la tecnica a dettare le regole. Ma, si sa, siamo tutti figli del nostro tempo. E quello attuale è così.

venerdì 7 agosto 2015

Giuseppe Antonelli: Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 2014)



Il titolo è una provocazione tutt’altro che priva di senso. In ossequio a un’immagine “austera e monumentale attribuita ai grandi personaggi del passato”, ci è quasi impossibile credere che Leopardi, nella sua corrispondenza, facesse ricorso così frequente a un turpiloquio composto da parole con la doppia zeta. È solo una delle tante sorprese che Giuseppe Antonelli, docente di Storia della lingua italiana all’università di Cassino nonché conduttore della fortunata trasmissione radiofonica La lingua batte, propone al lettore in questa agilissima antologia di riflessioni sulla lingua italiana e sui falsi miti che la affliggono. A cominciare dall’idea (infondata, sostiene l’autore) che l’italiano sia alla deriva e a proseguire con una divertentissima e sempre ottimamente documentata rassegna di osservazioni e curiosità che testimoniano l’andamento ondivago della lingua nazionale, la sua metamorfosi continua, l’impossibilità di ingabbiarla all’interno di regole fissate una volta per tutte. In questa raccolta gustosissima di aneddoti e riflessioni che poggiano con disinvoltura tanto su elementi colti quanto sulla cultura pop che tanto piace all’autore apprendiamo dunque che fino a tutti gli anni ’70 le grammatiche vietavano l’uso di “lui” e “lei” come soggetto, preferendo ad essi “egli” ed “ella”, termini che oggi appaiono desueti soprattutto nel parlato. Così come veniamo a sapere che alcune forme del congiuntivo come “dichi” e “venghi” non sono solo il frutto della comicità del ragionier Fantozzi, ma forme usate già dai padri della lingua (vadi era forma leopardiana, facci dantesca, venghi boccacciana). Il tono leggero ma mai superficiale torna a farsi accademico nelle occasioni in cui Antonelli chiosa a modo suo alcuni punti nodali come per esempio quello della punteggiatura, rispetto al quale ci ricorda che si è da tempo diffusa una “concezione ingenua della punteggiatura. Quella per cui l’interpunzione servirebbe a riproporre le pause del parlato e non – come invece è – a segnalare i legami tra le varie parti di un testo”. Ma allora: queste regole esistono o no? Il filo rosso del volume pubblicato da Mondadori contrappone costantemente la ragionevolezza delle regole con la necessità di non inamidare la lingua, lasciandola percorrere dalle suggestioni che provengono dalla società, dai passaggi delle mode (dal cioè al piuttosto che usato con funzione disgiuntiva), dalla radicale metamorfosi della funzione dei dialetti (oggi definitivamente sdoganati e non più indizio di inferiorità culturale), dall’influenza di neologismi e tecnologia. E, a proposito di tecnologia, alcune delle pagine più interessanti e divertenti sono quelle nelle quali si parla degli errori dei correttori ortografici, che finiscono inevitabilmente per segnalare il problema di chi debba correggere il correttore. Né meno divertenti sono le pagine in cui l’autore si fa beffa delle ridicolaggini di un certo purismo bacchettone – che nel Codice di autodisciplina della televisione vietò parole come vizio, membro e seno, persino in espressioni come in seno all’assemblea – o del fascismo, che nel suo tentativo di italianizzare parole come cocktail (diventato “arlecchino”) o sauté di cozze (trasformato in “sfritto”) venne turlupinato da Tullio De Mauro, il quale ipotizzò che la locuzione “Per Benito” non fosse altro che il participio passato del verbo perbenire (io perbenisco, tu perbenisci, ecc).
Se i contenuti sono costantemente frizzanti, la prosa non è da meno. Mostrando un gusto inarginabile per il calembour, l’autore infila nella sua scrittura sempre chiarissima una serie di invenzioni linguistiche frutto di una formidabile creatività: per questa strada, le regole della punteggiatura diventano un “solfeggio in quattro quarti usato da alcune grammatiche”, le abbreviazioni dello scritto – che a noi paiono un’invenzione resa necessaria da sms e Twitter ma che invece erano già diffusissime nell’Ottocento per poter risparmiare sull’invio della missiva – potevano essere accompagnate da un testo a “interlinea zero” (il riferimento è un altro, ma non importa). Con inevitabile passaggio dall’epistola all’e-pistola, con la quale si possono sparare colpi a suon d’acronimato (t.v.b.), magari in barba al solito piatto del giorno (le linguine alla norma) e con un occhio (anzi due) sull’e-taliano. E se poi qualche congiuntivo vi va di traverso, pazienza. Tanto, si sa, il congiuntivo è come il colesterolo (è sempre Antonelli che scrive): “c’è quello buono e quello cattivo”. Un’effervescenza che fremita a ogni pagina anche attraverso analogie assai creative, come quando l’autore, a proposito dei tormentoni, indica le canzoni come “una specie di carbonio 14 dei tormentoni linguistici”.
Unico neo (a parte un uso poco sorvegliato del verbo chiedere in luogo di domandare, distinzione che il linguista dovrebbe conoscere a menadito) è il metodo: torna spesso l’impressione che nel suo indomabile ottimismo Antonelli finisca per ridurre le ipotesi (linguistiche) a teorema, come quando opera confronti tra epoche diverse per dimostrare che, per esempio, non è vero che prima si scriveva bene e adesso no. Il metodologo si aspetterebbe un confronto a campione su testi di origine diversa, laddove l’autore prende tre esempi da qui e tre da là e dice: vedete? Sono uguali!
Robetta in confronto agli stimoli che un libro come questo può fornire anche ai non addetti ai lavori, per i quali il sottotitolo non potrebbe essere più veritiero: “l’italiano come non ve lo hanno mai raccontato". È proprio vero!

sabato 10 agosto 2013

Riccardo Zappa - Zapateria (fingerpicking.net, 2011)





Quando, poco dopo la metà degli anni ’70, esordì con un disco che è un autentico capolavoro (Celestion), Riccardo Zappa venne salutato da molti come “il Mike Oldfield italiano”. In un’epoca in cui la creatività musicale non veniva zavorrata dai diktat di un’industria discografica che in seguito sarebbe diventata sempre più propensa a massificare il gusto del pubblico su pochi prodotti omologati, la musica di Zappa, forte di venature progressive, incantò molti ascoltatori, al punto da poter aspirare a vendite ragguardevoli. Da allora le cose sono molto cambiate e l’autore di questo libro autobiografico, con allegati un audiolibro (la voce è di Renato Marchetti) e un cd di inediti, racconta quella lunga e difficile traiettoria che avrebbe portato lui e i musicisti come lui a essere ospitati “in alcune rassegne d’essai, più o meno come gli Indiani d’America sono ora confinati dentro alle famose riserve territoriali” (p. 64).
È una cavalcata che non segue un ordine cronologico, ma che si snoda disinvolta e con una scrittura agilissima tra riflessioni sulla musica e sulla tecnica chitarristica ma anche a margine della musica (la guerra vista “da dentro” in occasione di un concerto a Baghdad), appunti personali (l’intero volume è percorso dall’amarezza di una separazione burrascosa e da quella ancora più forte della distanza dalla figlia), aneddoti sugli esordi (le Feste dell’Unità, gli studi di conservatorio), gli incontri con musicisti come Venditti e Gaber, le lunghe tournée con Ramazzotti, la passione per Bach e i motori, il vizio del fumo.
Nel centinaio di pagine a stampa non si coglie mai un tono animoso, nonostante il senso di disillusione sia palpabile. Peccato soltanto per qualche (perdonabile) inciampo proprio sul lessico tecnico della musica (soundcheck è scritto ripetutamente soundchek, con una sola c).

mercoledì 7 agosto 2013

Stephan Baker - Il potere segreto dei matematici (Mondadori, 2010)





Ci sarebbe al massimo il materiale per un articoletto da pagine interne da pubblicare su qualche giornale in una domenica d’agosto. E invece Stephen Baker, giornalista che può vantare persino una collaborazione con il Wall Street Journal, conferma la proverbiale propensione degli americani a essere prolissi, fluviali, ipertrofici, arrivando a collezionare oltre 200 pagine di fuffa. Il concetto è questo: i nostri dati, circolando per la rete, vengono elaborati continuamente da grandi aziende che si stanno facendo largo con sempre maggiore autorevolezza. Li usano per orientare i nostri consumi, le nostre scelte politiche, le nostre malattie, i nostri bisogni affettivi quando non per scovare i terroristi. Baker chiama questi analisti “i numerati” (questo anche il titolo originale del libro), gente che lavora con i numeri e che corrisponderebbe dunque ai matematici del titolo. Peccato che focus group, network analisys, tecniche di clustering, analisi lessicometrica, data mining e tutte le altre tecniche descritte nel libro rappresentino la tipica cassetta degli attrezzi del sociologo. Possiamo capire la scelta editoriale: Il potere segreto dei sociologi non avrebbe venduto neppure una copia.
Scritto sciattamente, sfacciatamente autoreferenziale, pieno zeppo di dettagli inutili e soporiferi (sentite questa, e come questa ce ne sono altre cento: “Mi fermo al chiosco di Hank, prendo un caffè zuccherato e me lo porto in ascensore, in un grattacielo di Midtown” [p. 19]. E a me che me ne frega? Cosa aggiungi al mio sapere? E al piacere della lettura? Cosa credi? Di essere Proust?), il libro inciampa anche in alcune assurdità semantiche, come quando fa riferimento alla “attrazione gravitazionale che c’è tra me e mia moglie”. In che senso? Che quando fate la posizione del missionario lei avverte in tuo peso? Non sarebbe bastato parlare di “attrazione”? No, perché il prolisso deve metterci sempre una parola in più, sennò la brodaglia non si allunga abbastanza.
In ogni caso, chi volesse sapere le stesse cose senza doversi ruminare a fatica le 230 pagine del libro, può benissimo andarsi a vedere questo video su Youtube: è molto più esplicativo.

domenica 28 luglio 2013

Antonio Polito - Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2012)





“Con l’eccezione dei rampolli della dinastia Ming e di quelli dell’aristocrazia nella Francia prerivoluzionaria, i nostri figli sono i più viziati della storia dell’umanità”. Si apre con questa lapidaria affermazione della giornalista Elizabeth Kolbert il volume, parzialmente autoaccusatorio, di un altro giornalista, Antonio Polito, classe 1956, che alla sua generazione di padri (ma anche di madri) attribuisce la colpa di essere stata del tutto incapace di crescere adeguatamente i propri figli. Le ragioni storiche e culturali che hanno permesso questo primato in negativo vanno cercate lungo quattro direzioni di analisi: 1) il diritto al benessere, secondo cui la sua (la nostra) generazione ha trasmesso ai figli l’idea che ogni generazione avrebbe potuto godere di una prosperità maggiore di quella successiva; 2) il ruolo della contraccezione, che ha permesso di mettere al mondo soltanto figli desiderati (in concomitanza, aggiungo io, alla flessione della natalità, per cui si è trattato spesso anche di figli unici); 3) il ruolo giocato dalle filosofie consolatorie, tale per cui, a cominciare da Freud, sono state gettate le basi per una riduzione dell’etica alla psicologia (tradotto: aggredisce, ruba, stupra, va male a scuola, si droga perché papà lo trascurato); 4) il ruolo del darwinismo (a mio avviso l’argomento più debole), il quale spiegherebbe “tutti i comportamenti umani come conseguenze inevitabili della storia evolutiva della specie, e non come scelte più o meno consapevoli degli individui” (p. 27).
Questi quattro elementi hanno fatto da innesco a una considerazione della genitorialità sempre più lasca, con padri sempre più “mammi” e sempre meno capaci di giocare il ruolo parsonsiano di diaframma tra bambini e mondo. Padri che coccolano, vezzeggiano, sono perennemente schierati dalla parte dei figli, osteggiano i docenti che criticano i loro cocchini, li spronano alla competizione e alla dimensione performativa, li crescono nel consumismo più sfrenato e, peculiarità dei padri italiani (è di loro che si parla nel libro), optano per la scelta ultraconservatrice di destinarli a diventare proprietari di un appartamento. E, si sa, “una nazione di proprietari è più conservatrice e meno disposta a fare rivoluzioni” (p. 74). È anche per questo che deteniamo il record europeo di Neet (Not in education, employment or training): “più un giovane può contare su quello che gli lascerà il padre, meno si darà da fare per lavorare” (p. 95).
Molte argomentazioni presentate da Polito sono condivisibili e fanno riferimento a dati e fatti. Va però detto che sul testo aleggia un’aria fortemente conservatrice, tipica di quella sinistra arancione di cui Polito è uno dei massimi esponenti e che di sinistra non ha praticamente nulla. Basta guardare le fonti che cita: Ichino, Fornero, Treu.